Il potere dello storytelling nella gestione del diabete di tipo 2

L’Odissea e il ciclo bretone di Re Artù sono degli esempi, ma anche Guerre Stellari ed Harry Potter: gli esseri umani raccontano storie da sempre. Secondo diversi antropologi, infatti, sarebbero proprio le storie a renderci umani. 

Le storie pervadono tutto il nostro mondo e, nell’ambito di malattie croniche come il diabete di tipo 2, possono rivelarsi una risorsa potente per un’efficace auto-gestione della malattia e l’empowerment del paziente. È quanto ha indagato un gruppo di ricercatori dell’università di Toronto, in uno studio pubblicato su Canadian Journal of Diabetes. Vediamo in che modo.

La medicina narrativa, quando lo storytelling è dei pazienti

Il raccontare delle storie, o meglio applicare una cornice narrativa alle forme con cui comunichiamo, siano esse visuali, scritte oppure orali, viene indicato sotto il più generale termine di storytelling. Secondo il National Storytelling Network americano, lo storytelling è “l’arte che usa parole e azioni per rivelare gli elementi e le immagini di una storia”, mentre si stimola l’immaginazione di chi legge o ascolta, oltre a essere un prezioso mezzo di espressione umana. 

Le storie, infatti, sono ovunque: i media, la cronaca, la politica, la comunicazione aziendale e la pubblicità costruiscono la loro identità e il loro spazio simbolico attraverso discorsi narrativi, con i loro miti fondativi e i loro archetipi. Ma le storie non sono solo le narrazioni che permeano la nostra cultura, sono prima di tutto le narrazioni personali del mondo che ci circonda e delle nostre esperienze di vita. Se affetti da una malattia, utilizzare l’approccio narrativo per comunicare la nostra storia in quanto pazienti e costruire una storia condivisa diventa uno strumento molto potente per il paziente: questa pratica clinica prende il nome di medicina narrativa.

La medicina narrativa è una risorsa molto utile specialmente nelle patologie croniche, come il diabete, il cancro, l’ipertensione arteriosa e le patologie psichiatriche. In particolar modo, se si considera il diabete di tipo 2, lo storytelling è un approccio che consente ai pazienti di condividere le loro storie ed esperienze personali con professionisti e altri pazienti, aiutandoli a migliorare la comprensione del funzionamento della malattia malattia e potenziando le strategie di autogestione. Inoltre lo storytelling può aumentare le capacità di fronteggiamento e la motivazione a cambiare stile di vita. 

Lo storytelling, in poche parole, ha effetti benefici sull’empowerment del paziente, quel processo attraverso cui, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, le persone possono acquisire un maggiore controllo sulle decisioni e sulle azioni che riguardano la loro salute. 

Lo storytelling, un valido supporto per gli interventi educativi

In particolare, l’approccio narrativo sembra essere di grande aiuto associato con l’educazione all’autogestione del diabete, in inglese diabetes self-management education. 

I programmi educativi sull’autogestione del diabete sono un prezioso strumento dell’assistenza alla malattia, in quanto forniscono le basi per aiutare le persone con diabete a orientarsi tra le decisioni e le attività della vita quotidiana. 

I programmi di educazione mirano a migliorare le conoscenze e le abilità necessarie a una gestione del diabete autonoma ed efficace, e hanno dimostrato di migliorare in maniera significativa la salute dei pazienti. I programmi educativi sono accompagnati dai programmi di supporto, ovvero interventi che implementano e sostengono le capacità e i comportamenti adattivi necessari per l’autogestione in maniera continuativa. È stato ampiamente dimostrato che il supporto continuativo all’autogestione del diabete è correlato con esiti positivi dell’andamento della malattia, come un miglior controllo della glicemia, una maggiore autoefficacia del paziente, una riduzione dell’angoscia e, in generale, una riduzione delle complicazioni da diabete.

Nonostante i programmi di educazione apportino dei benefici indiscussi ai pazienti con diabete di tipo 2, queste pratiche cliniche hanno una scarsa adesione e un alto tasso di abbandono tra i pazienti, probabilmente perché i programmi di educazione si basano su un modello principalmente biomedico, incentrato sul raggiungimento di obiettivi clinici. In questo modo, però, gli aspetti emotivi e sociali del diabete vengono poco considerati, e questo può avere delle conseguenze sulla scarsa motivazione dei pazienti a seguire dei comportamenti di autogestione, in quanto il modello non riesce a integrare i vari significati che i pazienti attribuiscono alla loro malattia.

È proprio in questo contesto che si ritengono validi gli interventi di supporto ai programmi educativi basati sull’approccio narrativo: questo tipo di interventi sanciscono il passaggio da un approccio prettamente biomedico a una strategia che può incorporare in maniera organica le storie e le esperienze dei pazienti, in modo da consentire loro di gestire la propria malattia nella maniera che ritengono più consona e più in linea con la loro persona e le loro esperienze. 

Uno studio sull’importanza delle storie dei pazienti

I ricercatori dell’Università di Toronto, in uno studio pilota, hanno esaminato se lo storytelling dei pazienti fosse uno strumento accettabile di supporto ai programmi di autogestione, in pazienti con diabete di tipo 2, e se la narrazione potesse migliorare le competenze e la motivazione dei pazienti nell’autogestione del diabete, valorizzando le storie, le esperienze e le interazioni sociali.

L’intervento di storytelling è stato concepito in questo modo: si trattava di sedute di gruppo in aggiunta al programma di educazione in cui, oltre ai pazienti, partecipava anche un facilitatore, ovvero un professionista esperto di diabete (infermiere, dietista oppure educatore). Il programma è stato portato avanti per 16 settimane, per un totale di 8 sedute. Ai pazienti veniva chiesto di condividere le loro storie personali e discuterne tra di loro, mentre compito dei facilitatori era quello di incoraggiare il confronto, supportare i processi di gruppo e la condivisione di suggerimenti per la gestione della malattia. Nonostante la presenza del facilitatore, le sedute erano condotte interamente dai pazienti: il gruppo ha deciso le regole interne a ciascuna seduta e, una volta fatto del brainstorming su argomenti di autogestione del diabete, ha scelto i temi da trattare per ciascuna delle sessioni. In ogni seduta i facilitatori hanno introdotto l’argomento della sessione e hanno chiesto ai pazienti di raccontare le storie che avevano preparato, e a ogni paziente è stata data l’opportunità di parlare e di rispondere alle storie degli altri. 

Ogni sessione si concludeva con le osservazioni di chiusura dei pazienti su quanto appreso e con riflessioni su eventuali necessità per le sedute successive. 

Lo studio ha riportato un apprezzamento notevole da parte dei pazienti nei confronti di questo intervento, considerandolo un’integrazione molto gradita al programma educazionale. L’elemento che più in contrasto con il programma educazionale classico, e forse il punto di forza dell’approccio narrativo, è il ruolo attivo che i pazienti hanno nell’intervento di storytelling, se confrontato con quello passivo che si ha nell’apprendimento. Nello storytelling, infatti, il paziente è il vero motore di tutto: incoraggiando il coinvolgimento e offrendo l’opportunità di condurre le discussioni, le sedute stesse si sono rivelate estremamente personalizzate per le esperienze dei pazienti, che erano più motivati a comprendere le informazioni scambiate e a dare un significato personale all’intera esperienza. Tutto ciò ha incrementato l’empowerment e la fiducia non solo nella loro capacità di contribuire alle sessioni, ma anche di gestire in maniera efficace la malattia.

Sia pazienti che facilitatori, insomma, hanno ritenuto questo tipo di intervento positivo e benefico per l’auto gestione del diabete. Trattandosi di uno studio pilota, questa ricerca ha dei limiti, prima tra tutte il piccolo numero di pazienti con cui è stato condotto (si tratta, infatti, di un gruppo di 8 pazienti). Tra le altre caratteristiche da valutare in futuro, attraverso nuovi studi, vi sono anche la durata delle sedute, che variavano da un’ora a due, e la composizione del gruppo in termini di genere, età e altre associazioni culturali: mentre, infatti, alcuni pazienti si sentivano stimolati dalla diversità del gruppo, altri si sarebbero sentiti più a loro agio con un gruppo più omogeneo. 

A cura di Chiara Di Lucente


 Fonti 

  • Diabetes Self-management Education and Support in Type 2 Diabetes: A Joint Position Statement of the American Diabetes Association, the American Association of Diabetes Educators, and the Academy of Nutrition and Dietetics
  • Margaret A. Powers, Joan Bardsley, Marjorie Cypress, Paulina Duker, Martha M. Funnell, Amy Hess Fischl, Melinda D. Maryniuk, Linda Siminerio, Eva Vivian
  • Diabetes Care Jul 2015, 38 (7) 1372-1382; DOI: 10.2337/dc15-0730
  • Gucciardi E, Reynolds E, Karam G, Beanlands H, Sidani S, Espin S. Group-based storytelling in disease self-management among people with diabetes. Chronic Illn. 2019 Jul 2:1742395319859395. doi: 10.1177/1742395319859395. Epub ahead of print. PMID: 31266352.
  • Gucciardi E, Richardson A, Aresta S, Karam G, Sidani S, Beanlands H, Espin S. Storytelling to Support Disease Self-Management by Adults With Type 2 Diabetes. Can J Diabetes. 2019 Jun;43(4):271-277.e1. doi: 10.1016/j.jcjd.2018.06.004. Epub 2018 Jun 22. PMID: 30297298.