Uno strumento essenziale per confrontarsi con gli altri: l’empatia. La storia di Ombretta e di sua figlia Morgana

Da diversi anni, sul web, gira un’animazione ispirata a un monologo di Brené Brown. Il tema è l’empatia. Si tratta di un video di soli 3 minuti, ma folgorante nella sua chiarezza e intensità.
Il succo della questione è il seguente: quando qualcuno ci racconta qualcosa di doloroso, troviamo che sia cosa “buona e giusta” imbellettare tale dolore. Forse, pensiamo in questo modo di renderlo più sopportabile, ma in realtà stiamo solo sminuendone la portata.

Dice Brené Brown, che una frase empatica non inizia mai con “Almeno”.
Dovremmo ricordarcelo tutti.
“Mia figlia è diabetica”
“Almeno non ha patologie più gravi… Almeno gli altri tuoi figli non lo sono… Almeno l’avete scoperto in tempo”.
Non funziona così. E non potrà mai funzionare così. Un dolore, di qualsiasi forma, tipo, entità non va edulcorato, non va minimizzato, non va ovattato, non va paragonato a situazioni ipotetiche considerate “più gravi”.
Il fatto è che fa così paura il dolore degli altri – o il nostro – che guardarlo in faccia, sembra davvero l’ultima spiaggia possibile. Prima ci arrabattiamo in escamotage, che per loro natura non potranno lenirlo. Semmai, al contrario, lo amplificheranno.

Io credo molto nel potere curativo delle parole e, di conseguenza, della narrazione. Le storie arrivano a noi col preciso intento di insegnarci qualcosa.
Pensiamo a una favola per bambini, a una drammaturgia per il teatro, a una sceneggiatura per il cinema, o a un libro di qualunque genere. Noi tutti ci aspettiamo di assistere alla trasformazione del protagonista. Qualcosa deve succedere, qualcosa deve cambiare.
Persino nei detti popolari sono nascoste verità trasformative.
Forse, dovremmo ricordarci questo, ogni volta che entriamo nelle storie degli altri.
Abbiamo il potere di partecipare, o essere testimoni di questa trasformazione, a patto che accettiamo di utilizzare uno strumento portentoso: l’empatia, per l’appunto.
Al contrario, se siamo privi di tale strumento, le parole diventano coltellate. O restano in superficie, lasciando il nostro interlocutore in balia delle sue tempeste.

Ombretta Perron, suo malgrado, si è dovuta interfacciare con persone che anteponevano il giudizio alla comprensione, persone con il vizio della parola “almeno”.
Ombretta vive in Valle D’Aosta ed è la mamma di 4 figli. Vent’anni, quattordici, undici e otto sono le loro età, in ordine decrescente.
Morgana è la seconda, quella di quattordici.
Il diabete è arrivato a nove. Glucosio nelle urine, un tragitto lungo verso il pronto soccorso. La glicemia a 580.
“È diabete…”, si ripeteva lei, silenziosamente, guardando la figlia dallo specchietto retrovisore.
Cosa succede nella testa di una mamma in quel momento? E nel suo cuore?
A proposito di narrazione, molti genitori, una volta intervistati mi hanno detto che dal momento dell’esordio del diabete è iniziato l’anno zero. Una nuova vita, diversa da quella di prima. C’è sempre un pre-diabete e un post.
È così anche per Ombretta, quando guarda le foto della sua famiglia. Le viene da dire: “Qui il diabete non era ancora arrivato…qui, invece sì”.

Morgana è agofobica. Sarà facile comprendere quanto questo possa aver influenzato la gestione e l’accettazione del diabete e come sia stato fondamentale avere accesso ai giusti presidi, al sensore e al microinfusore, a tutta quella tecnologia che avvisa, anche tramite telefono, l’andamento delle glicemie, consentendo un monitoraggio costante.
Essere agofobici e avere il diabete significa che si preferisce non mangiare per paura di doversi provare le glicemie e farsi l’insulina.
Il percorso è in doppia salita.
Ombretta è un’infermiera di rianimazione. Ha cominciato a partecipare ai congressi sul diabete. Ha studiato, ma, ancora più importante, si è confrontata con altri genitori e ha capito di non essere sola in questa battaglia. Una battaglia fatta di tante domande, alle quali a volte proprio le persone titolate, non davano risposte. Ma lei ha perseverato, ancora e ancora, fino a quando le ha ottenute.
Ho chiesto a Ombretta di descrivermi sua figlia.
“Molto sensibile, chiusa, introversa, generosa. Non ha mai voluto parlare di diabete, nemmeno in classe. È sempre stato un argomento tabù. Poi, col tempo, le cose sono andate migliorando. È stato fondamentale, ad esempio, partecipare ai campi scuola estivi organizzati a Genova, all’interno dei quali i ragazzi con diabete possono confrontarsi e comprendere che la loro realtà è condivisa”.

Io fatico a immaginarmi la quotidianità di una donna che deve pensare alla famiglia, ai 4 figli e a un lavoro a tempo pieno, ma resto ancora più esterrefatta quando mi racconta che durante il lockdown ha lavorato nel reparto infettivi, ed essendo a stretto contatto con i malati di Covid, ha deciso di allontanarsi dalla sua famiglia. Per due mesi e mezzo non è stata con loro.
“È stato come vivere in una bolla. Ma era necessario, dovevo farlo”. E poi aggiunge: “un giorno, in questo periodo di lontananza, Morgana mi ha mandato la foto delle sue glicemie. Erano perfette. E posso assicurarti che non potevo ricevere un regalo più bello di questo”.

A cura di Patrizia Dall’Argine