22/7/04 News dal campo base. Le riflessioni di Marco sul senso del viaggio
Alle 16,30 squilla il cellulare e, prima di rispondere, guardo sul piccolo schermo chi mi sta cercando nel bel mezzo di questo afoso e torrido pomeriggio di fine luglio. Appare la scritta “Sat”: sono i ragazzi dal Campo Base!
Mi aspetto di sentire la voce di Giampaolo che mi aggiorna sull’attività di Patrizia, Beppe e Marco impegnati nella salita verso il Campo 3. Invece il “ciao Sara” che sento proviene inequivocabilmente da Marco.
La mente corre veloce e cerca di trovare una spiegazione del perchè mi stia parlando Marco dal Campo Base quando dovrebbe essere ai campi alti.
Il tono della sua voce non lascia molti dubbi. “Sara, siamo tornati al Campo Base perchè le condizioni in quota sono proibitive. Abbiamo raggiunto quota 6557 metri battendo pista su neve impossibile. Viste le condizioni e visto il tempo non è possibile salire. Dobbiamo rinunciare. Questa volta è andata così!”
L’emozione e l’amarezza sono palpabili e subito la mia mente si riempie delle facce allegre e speranzose di Anna, Nikki, Patrizia, Beppe, Daniele, Giampaolo, Marco e Mirco mentre salutavano noi trekkinisti che stavamo lasciando il Campo Base. 6557 metri: che precisione, penso. Poi, riflettendoci, capisco il perchè di tanta accuratezza: devono averli proprio conquistati con profonda determinazione quei 6557 metri!
Forse riusciranno a spedire un aggiornamento prima di lasciare il Campo Base (la partenza è prevista per lunedì 26/07) e così potremmo leggere le loro parole e vivere con loro l’ultima parte di questa importante esperienza che ha lasciato un segno in ognuno di noi.
Sara
Il senso del viaggio
Per quanto assurdo possa sembrare sempre mi succede, al momento di accingermi ad un viaggio importante come questo, di chiedermi perché lo faccio. La risposta arriva puntuale durante il viaggio, ne prima ne dopo, ma durante, e la risposta non ha parole ma parla direttamente allo spirito.
La sensazione che esista solo quella parte di universo che siamo in grado di percepire con i nostri sensi e che tale parte esista solo in quanto percepita, rappresenta il maggiore ostacolo all’intrapresa di qualunque viaggio. E’ come se, quando si lasciano la casa e tutti gli affetti, per un viaggio sufficientemente lungo da creare una barriera nella memoria, questi cessassero di esistere e non ci si sente più molto sicuri di ritrovarli al ritorno come non sapeva Odisseo cosa avrebbe trovato se fosse tornato, in quell’archetipo del viaggio cantato da Omero.
Questa è una delle magie del viaggio, la barriera nella memoria, la perdita parziale di consistenza e significato della nostra vita precedente ad esso, premessa necessaria per l’apertura verso una nuova esperienza.
Bene aveva compreso Fosco Maraini che taluni viaggi ci trasportano attraverso le invisibili ma reali frontiere tra le culture: nettamente si avverte di aver varcato questa soglia approdando ai porti asiatici del Pakistan. Non così sarebbe stato, anche se dopo voli più lunghi, ci fossimo trovati nelle Americhe, in alcuni paesi centro e Sud Africani o dell’Oceania, e meno ancora in Europa. La cultura che ci accomuna nelle aree mondiali suddette, in questa area del mondo invece ci divide.
Proprio queste differenze provocano le più aspre incomprensioni e violenze; per questo sento la necessità di stigmatizzare alcuni dei più radicati pregiudizi e luoghi comuni che, dalla nostra piattaforma culturale cristiana, occidentale, europea e giù fino ai nostri conoscenti, amici e parenti, applichiamo ai paesi orientali e soprattutto ai paesi islamici come il Pakistan, senza alcun beneficio di inventario.
Il Pakistan, la terra dei puri questo significa il suo nome, assieme ad Israele, gli unici paesi al mondo fondati per motivi religiosi e più di Israele, rappresenta una fusione di popoli aventi lingua, culture, tradizioni, diverse, il cui minimo comun denominatore è l’Islam. Gli interrogativi che questa realtà pone sono per altro applicabili ad ogni area extraculturale a quella occidentale e, talvolta, anche all’interno di questa: com’è possibile pensare ad interi popoli come assetati di sangue occidentale dopo aver vissuto tra le genti, comprato nei loro mercati, parlato con loro, mangiato dove mangiano loro?
Com’è possibile stupirsi perché la democrazia non funzioni bene come prodotto di esportazione qualsiasi stile coca-cola? Com’è possibile credere che l’uso della forza e l’oppressione contro interi popoli creeranno le condizioni per un mondo migliore?
Com’è possibile meravigliarsi se la colonizzazione economica stile F.M.I. (Fondo Monetario Internazionale) e multinazionali non creino reazioni di rigetto economiche e sociali, come un cattivo trapianto viene rigettato da un corpo umano?
E’ possibile finché rimarremmo succubi del nostro protezionismo culturale, del nostro, supposto, primato cultuale, della nostra cieca avidità economica. Succubi del nostro limitato orizzonte culturale, continuiamo a cercare altrove i colpevoli dei mali del mondo.
Il viaggio amplia questo orizzonte, se si ha il coraggio di intraprenderlo, e mette in comunicazione culture diverse; così noi troviamo un senso in questo viaggio che, forse più di altri viaggi, è una matrioska di viaggi ognuno con un diverso e più profondo impatto sull’essere a mano a mano che ne scopriamo i diversi livelli.
Così noi troviamo il senso del nostro viaggio: nella prima parte abbandoniamo la casa e attraverso la vita con il popolo pakistano assaporiamo l’esperienza di una cultura diversa; nella seconda parte, l’avvicinamento, sperimentiamo là il contatto del corpo e dello spirito con il panorama umano ed ambientale che ci circonda e ci accompagna: è il secondo livello di abbandono dopo quello della nostra terra, quello del nostro stile di vita. L’asprezza dell’ambiente naturale fa poi emergere i nostri limiti, spazzando via, talvolta in modo feroce, la crosta di uniformità che ci accomuna. Raggiungiamo così il terzo livello del viaggio, l’abbandono di quanti ci hanno accompagnato, preparandoci ad interiorizzare la via che attraverso noi stessi e sulla montagna, ci condurrà in alto, nessuno sa fino a dove veramente perché se è vero che esiste un dove fisico, la cima, ognuno sperimenterà un viaggio interiore nella più profonda solitudine, la più definitiva conquista.
Il nostro, che è un viaggio circolare, troverà in tal senso il suo compimento, ognuno diverso dall’altro; infine percorreremo all’inverso le varie tappe per riconciliarci con la nostra Itaca. Se pure non vi troveremo i Proci e non vi torneremo irriconosciuti come Odisseo, l’uomo che torna non sarà più colui che partì.
Nessun viaggio altrimenti può dirsi compiuto e solo in questo ogni viaggio trova la sua più vera ragione.
Daniele