«Ci sentiamo funamboli. Costantemente in equilibrio precario. Vorresti lasciarti andare: non puoi lasciarti andare. È l’assenza di leggerezza che ci mette costantemente alla prova. Il fatto di dover mantenere sempre alta l’attenzione».
Ilaria Bertinelli mi racconta. E non si tratta di un’intervista al telefono. Siamo comunque distanti, ma ci vediamo attraverso lo schermo del computer, riproducendo quella prossimità che il Covid ci ha restituito come unica forma di intimità possibile e concessa.
Ha i capelli lunghi rispetto all’ultima volta e sono ramati, non più biondi. Gli occhi sono rimasti gli stessi: brillanti, appassionati e soprattutto aperti sulla realtà della sua vita. Pronti a guardarla, in qualunque forma le si pari davanti.
L’ultima volta mi raccontava del diabete e della celiachia di Gaia, sua figlia. Oggi, mi parla del diabete di suo figlio, Nicolò, e dell’esordio avvenuto in luglio.
«Quando succede una cosa così, ti chiedi: Ce la farò? E non perché non sai cosa ti aspetta, ma proprio perché lo sai».
Erano coscienti del fatto che potesse succedere. Avevano fatto esami per stabilirlo. L’esito era stato chiaro. Nicolò avrebbe potuto sviluppare il diabete.
«Che cosa vi cambia saperlo?», le dicevano. «Siete certi di voler fare questo esame?». Ne erano certi. Erano certi che la consapevolezza fosse la strada giusta. Che sapere fosse la strada giusta. Erano certi dei loro occhi aperti sulla realtà. Li hanno tenuti così. Aperti. Tutti e quattro. E il diabete è arrivato. Dopo otto anni da quell’esame. Nessuno lo voleva, insieme l’hanno affrontato. Insieme hanno accettato la metamorfosi.
«Gaia è stata quella che ne ha sofferto di più. Gaia, quel giorno, era inconsolabile. Perché era l’unica a sapere davvero quello che Nicolò avrebbe affrontato. Noi genitori siamo spettatori, non protagonisti. Sono situazioni totalizzanti, dove il confine sbiadisce.
Io ho visto nel giro di un’ora la trasformazione dei miei due figli. Da una parte Gaia che insegna al fratello a farsi l’insulina, dall’altra Nicolò che diventa grande, che diventa uomo, prendendo una decisione. Doveva decidere se partire o meno, e ha deciso di farlo».
Ilaria mi racconta di aver immediatamente contattato la diabetologa di Gaia al Meyer.
«Sapevamo che poteva succedere, mi ha detto. E le ho risposto: Purtroppo sì. Mi spiace solo che coincida con la crociera che Nicolò stava aspettando e che sostituiva la vacanza studio dell’anno scorso resa impossibile dal Covid. E la sua risposta è stata: Ma noi Nicolò lo mandiamo, Ilaria».
E per mandarlo, per aprire uno scorcio in un giorno buio, che di scorci non ne aveva nemmeno uno, si sono mossi in tanti. Con coscienza, professionalità e gratuità; e con l’ausilio della tecnologia, perché una condizione imprescindibile era che ci fosse il wifi sulla nave e che Nicolò potesse essere controllato da remoto.
E così, alla fine, sulla nave è stato accolto un ragazzo di sedici anni che solo 24 ore prima aveva scoperto di essere diabetico.
Come una rivalsa verso una storia, della quale ci si aspetterebbe un solo finale scontato: un letto di ospedale.
È andata così, perché Ilaria è una mamma che conosce perfettamente il diabete da undici anni, tramite sua figlia. È andata così perché, trasversalmente, lo conosce anche Nicolò, tramite sua sorella.
«In otto ore abbiamo fatto quello che con Gaia abbiamo fatto in otto anni»
È andata così perché c’erano le condizioni fisiche affinché accadesse e perché era possibile monitorare da lontano, una cosa impensabile solo poco tempo fa.
E poi è andata così, perché Nicolò l’ha scelto e l’ha voluto. Avrà avuto paura? Credo di sì. Ne avrà avuta Ilaria? Sono certa di sì, perché me lo dice. E perché lo schermo, con la sua prossimità meccanica, non può restituire tutto, ma la sua commozione sì.
Perché mi piace tanto questa storia? Perché è una storia a lieto fine, si potrebbe pensare.
Sì, ma non nell’accezione di lieto fine a cui siamo abituati, con quell’idea di felicità statica, immutabile e, a ben vedere, disumana.
Questa storia mi piace perché mi ricorda la responsabilità con la quale siamo chiamati a rispondere alla vita. E forse il lieto fine è il modo con cui questa responsabilità ce la prendiamo. È il modo con cui rispondiamo al dolore. Non esistono vite senza dolore.
Nicolò dalla crociera, a un certo punto, è dovuto scendere. E lo stesso giorno è stato portato al Meyer e lo stesso giorno ha dovuto rimpiantare il micro due volte, perché gli faceva male. Ma era un male più profondo, dice Ilaria. Non riguardava aghi e pelle. Riguardava una condizione che se ne va e un’altra che arriva. Un’altra difficile con cui confrontarsi quotidianamente.
Si può dar spazio al dolore, senza rinunciare a fiorire. Forse buona parte di questa fioritura parte dal modo in cui pensiamo, e conseguentemente dal modo in cui restituiamo il pensiero attraverso le parole. Dipende dalla narrazione che facciamo della nostra stessa vita. All’inizio della telefonata ho chiesto a Ilaria come stava. Come erano passati questi due mesi, dopo l’esordio di Nicolò. E la sua risposta mi ha folgorata.
«Sto bene, ormai ci siamo rasse…» e qui si è corretta e ha detto «riassestati. Ormai, ci siamo riassestati».
Ed è stato chiaro, ancora una volta – se la prima, anni fa, non mi fosse bastata – che tipo di persona avessi davanti, e di riflesso, che tipo di famiglia.
Una famiglia che si riassesta. Che prende i colpi della vita, accetta di cadere, ma non accetta di stare lì, per terra, per troppo tempo. Ci sarà un altro modo per stare in piedi. Deve esserci per forza.
Questo è riassestarsi. Questo è essere funamboli. Questo è avere gli occhi aperti sulla propria condizione e soprattutto sulle cose che non vorremmo mai guardare.
A cura di Patrizia Dall’Argine