Anno 22 – n.1
Gennaio-marzo 2005
IN TUTTO IL MONDO CONTINUANO STUDI ED ESPERIMENTI
Alla ricerca della Soluzione
Come sta la ricerca sul diabete di tipo 1°? Va avanti, cerca di venire a capo di un problema complesso, mobilitando risorse intellettuali ed economiche cospicue, nella speranza di poter dare risposte a milioni di persone. Ne abbiamo parlato con un autorevole esperto internazionale, il diabetologo Marco Songini.
Il professor Marco Songini, primario di diabetologia all’Ospedale Brotzu di Cagliari (www.aob.it), epidemiologo, è impegnato da anni sul fronte della più avanzata ricerca internazionale. Nato nel 1953 a Roma, da quasi quarant’anni lavora in Sardegna, una delle zone del mondo dove l’incidenza del diabete di tipo 1° è più alta, ed è vicepresidente della Asris (Associazione per lo studio e la ricerca del diabete in Sardegna, www.asris.org), organizzazione scientifica che da 15 anni partecipa ai più importanti studi mondiali di ricerca sul diabete di tipo 1°.
Professore, la ricerca cammina, ma il paziente che spera in una cura definitiva può avere l’impressione che sia ferma. Ha torto?
Facciamo un passo indietro. Dal 1974, grazie alla scoperta di Gian Franco Bottazzo sugli anticorpi che attaccano le insule pancreatiche, sappiamo che il diabete di tipo 1° ha una fondamentale componente autoimmune, è cioè una patologia in cui l’organismo distrugge parti di sé stesso. Ma capire che cosa inneschi quel meccanismo si è rivelato più difficile del previsto. Sia negli Stati Uniti sia in Europa sono stati condotti grandi studi per identificare i soggetti a rischio, in cui cioè eravamo in grado di predire anticipatamente lo sviluppo del diabete, sperando di trovare la pallottola magica che potesse fermare il killer prima che fosse riuscito a distruggere completamente le insule pancreatiche, cioè prima che avesse determinato la comparsa clinica della patologia. Si definisce ciò prevenzione secondaria: agire precocemente su un soggetto in cui si trovino i segni di un iniziale attacco autoimmune con qualche cellula morta ma le altre ancora sane, con l’obiettivo di bloccare l’ulteriore evoluzione dell’aggressione autoimmune. Quindi si blocca l’evoluzione a diabete, in modo da far tornare la persona alla normalità, anche se un primo attacco lo ha già subito, ma non di entità grave. Negli animali da esperimento si era infatti visto che la tempestiva somministrazione di sostanze come insulina o nicotinamide bloccava l’evoluzione del quadro. Ma i grandi trial condotti per anni in America e in Europa hanno dato risultati drammaticamente deludenti. Che si desse loro insulina o nicotinamide o altro, i bambini a rischio sviluppavano ugualmente il diabete come i soggetti a rischio di controllo. E’ stato uno shock che ha paralizzato almeno per ora la capacità di prevenzione secondaria. Non c’erano i presupposti per proseguire su quella strada. Ci stiamo comunque riorganizzando, soprattutto dal punto di vista di unire gli sforzi dei vari ricercatori mondiali, per perseverare sulla strada della prevenzione.
Ma sulle cause del diabete di tipo 1 si sono fatti progressi?
Purtroppo ancora oggi sulle cause che portano l’organismo a bombardare le sue stesse insule non sappiamo niente di decisivo. Sappiamo che esistono cause non genetiche rappresentate da fattori ambientali: ce n’è una lunga lista, ma nessuna ha un ruolo emergente. E sappiamo che vi sono cause genetiche: predisponenti, ma non determinanti, cioè non sono causa diretta del diabete, ma soltanto segno di particolare rischio e suscettibilità.
La Sardegna è una delle aree del mondo più a rischio per il diabete di tipo 1, come la Finlandia. Può dirci qualche dato?
L’incidenza in Finlandia è di circa 55 nuovi casi all’anno su 100.000 bambini, nella fascia di età 0-14; in Sardegna 45 su 100.000. Invece, per esempio, a Milano e Lombardia sono 7 su 100.000 e la media italiana è di circa 8 casi, sei volte di meno rispetto alla Sardegna.
Perché proprio Sardegna e Finlandia, così distanti? Che nesso può esserci?
E’ una domanda che ci poniamo da anni. Queste popolazioni hanno in comune il fatto di essere geneticamente isolate. I finlandesi provengono da un comune ceppo ugrofinnico, trasferitosi dal sud al nord Europa all’epoca delle grandi migrazioni, e sono rimasti separati dagli altri: infatti, sono diversi dagli scandinavi. Anche i sardi sono rimasti geneticamente sempre isolati, non si sono mischiati. Queste popolazioni, che non hanno avuto, diversamente dagli altri europei, influssi genetici da altri gruppi, nei millenni hanno selezionato (cosiddetta deriva genica) caratteristiche che li hanno resi particolarmente sensibili a sviluppare meccanismi di autodifesa. A questo si è probabilmente aggiunto lo shock prodotto da qualche rapido cambiamento, verosimilmente ambientale (in Sardegna, forse, la poderosa campagna anti-malaria a base di Ddt, dopo la seconda guerra mondiale). Noi sappiamo che il diabete prima non c’era o era molto raro sia in Sardegna sia in Finlandia, mentre è cominciato ad aumentare drammaticamente a cavallo degli anni 60 e oggi è in costante crescita. Si ipotizza che un mutamento improvviso delle condizioni ambientali abbia eliminato una protezione o introdotto un elemento nuovo predisponente. Di fatto, queste due popolazioni, la sarda e la finlandese, hanno cominciato a sviluppare caratteristiche genetiche particolari che costituiscono un alto rischio di sviluppare il diabete.
Su quali possibili soluzioni sta studiando oggi la ricerca?
Oggi si sta lavorando molto sul trapianto (d’organo in toto e di isole), e sul pancreas artificiale. Però il trapianto non è curativo, è sostitutivo, rimpiazza l’organo malato, ma non fa tornare l’individuo a come era prima della malattia. Il pancreas artificiale non sarà mai come l’organo originale. Il trapianto comporta inoltre, per ora, l’assunzione di immunosoppressori per tutta la vita. Insomma, non è questa la soluzione ideale, anche per ragioni economiche. Quale società può permettersi di trapiantare così tante persone?
Le cellule staminali sono un terreno promettente?
Io sono favorevole alla ricerca sulle staminali in relazione al diabete, anche se sul loro uso vi sono ancora problemi da risolvere: non basta ripristinare l’organo distrutto, perché, siccome la malattia è autoimmune, bisogna non soltanto ricostruire le cellule che producono insulina, ma anche far sì che l’organismo non le identifichi come estranee e non le distrugga come ha fatto precedentemente con le sue. Se con le staminali riproduciamo cellule identiche a quelle originarie dell’individuo, distrutte dagli anticorpi, il rischio è che lo stesso attacco lo subiscano anche quelle nuove. Il nuovo apparato insulino-riproduttore dovrebbe essere quindi in qualche modo immunologicamente diverso dal precedente. Le staminali però restano un filone di ricerca valido e importante.
Il trapianto di isole può rappresentare per alcuni soggetti un’alternativa: tenendo conto che le cellule trapiantate hanno una durata limitata, di qualche anno, possiamo pensare che, quando avremo sistemi di trapianto di isole più semplici, si possa creare una riserva di cellule per il diabetico trapiantato, in modo da poter sostituire ogni 3-4 anni quelle precedenti con un nuovo intervento. Ma il trapianto non può essere la soluzione per tutti. Quanti ne dovremmo fare ogni giorno?
Su che cosa state lavorando ora con la Asris?
In questi anni, in particolare, stiamo conducendo il Progetto DiabFin (diabete finalizzato), finanziato dal ministero della Salute, che ha il fine di definire la storia naturale del processo autoimmune nel diabetico sardo. Abbiamo selezionato 2500 bambini e seguiamo negli anni quelli che geneticamente hanno maggiore rischio di sviluppare il diabete. Dalla nascita, li controlliamo una volta l’anno per individuare quelli che svilupperanno le prime manifestazioni autoimmuni e poi la patologia clinica diabetica: alcuni guariranno da soli, altri avranno il diabete. Cerchiamo di capire perché. Altro studio importante in corso è il Trigr (Trail to reduce insulin-dependent diabetes in genetically at risk), primo trial internazionale di prevenzione primaria, che parte dalla plausibile ipotesi che il latte vaccino o prodotti derivati, nei primi sei mesi di vita, possano determinare nel bambino una sensibilizzazione autoimmune, che poi, per un fattore scatenante, provocherà il diabete. Lo studio segue un gruppo di bambini a rischio, figli di diabetici o con fratelli diabetici, scelti in tutto il mondo.
Rispetto alla prevenzione, la predizione è più avanzata?
Sì, la predizione è certo più avanti della prevenzione, ma non arriva al 100%, individua ancora un caso vero su tre a rischio. Combinando la genetica possiamo arrivare al 50%. Ma non possiamo ancora dire: se hai quell’anticorpo e quel gene, avrai certamente il diabete.
Ma, per il paziente, conviene sapere di essere a rischio di diabete, se poi non si può impedirne l’insorgenza?
E’ un tema caldo, su cui si discute molto. Se la predizione è fatta al di fuori di trial controllati è inutile e non è eticamente corretta, secondo le linee-guida internazionali sullo screening. Se avviene invece all’interno di studi scientificamente convalidati può essere positiva: intanto, il soggetto, con la sua storia naturale, dà un contributo a chiarirla scientificamente; poi c’è un’assistenza al paziente continua nel tempo, per cui egli sarà regolarmente seguito, non avrà mai glicemia alta perché l’intervento terapeutico sarà attuato subito; sarà ridotto lo shock della diagnosi perché è cosa nota dall’inizio e perché il soggetto è assistito anche dal punto di vista psicologico; si evita l’ospedalizzazione e di solito, almeno per un lungo periodo iniziale, anche la terapia intensiva di 3 o 4 insuline al giorno, perché, intervenendo con il trattamento al primo insorgere del diabete, lo stress sul pancreas è contenuto e una sola iniezione al giorno può essere sufficiente. Infine, il paziente è al riparo da complicanze, poiché, essendo trattato in maniera ottimale fin dal principio, non deve subire periodi di iperglicemia, passa dalla fase prediabetica a quella diabetica controllata da équipe mediche. Se poi si scopre qualcosa di nuovo e valido, i soggetti sotto studio, gia ben identificati, saranno i primi destinatari del beneficio.