Cosa significa affrontare una gara dentro la gara?
Me lo spiega Luigi D’Andrea, papà di Simona.
Significa allenarsi in piscina per due ore al giorno, tutti i giorni, prepararsi per le gare perché hai scelto di fare sport agonistico e, tra l’altro, sei anche brava; competere allo stesso livello con atleti normoglicemici e avere il diabete.
Lo abbiamo visto e raccontato spesso in questa sede, ma vale la pena ricordarlo ancora.
È una gara dentro la gara, come la definisce giustamente Luigi.
È una gara dentro la gara che da sempre viene supportata da AGD Italia, Coordinamento tra le Associazioni Italiane Giovani con Diabete.
Simona, per prima, ne è cosciente e se lo ripeterà tutte le volte che indossa gli occhialini, per entrare in acqua.
E se lo sarà detta, forse, anche quando l’acqua in cui si tuffava non era quella trasparente e clorata della piscina, ma quella salmastra e agitata del mare. Era l’anno scorso e c’era un’impresa da fare. Uno stretto da attraversare. Quello di Messina, per essere precisi. Da Punta Faro, fino alle coste calabresi di Villa San Giovanni. E c’erano i suoi 14 anni di ragazza determinata, di atleta, di sognatrice, di sangue freddo e concentrazione.
“E com’è stato?”, le chiedo.
“All’inizio la corrente era forte e c’era freddo. Mi sentivo disorientata. Anche il respiro era bloccato”
“E cos’hai fatto?”
“Mi sono detta: adesso vediamo. E ho continuato”.
Lei non può saperlo ma io, dall’altra parte del telefono, sorrido. C’è una semplicità priva di fronzoli nelle risposte di Simona. Niente di troppo esposto, nessuno stato d’animo troppo evidente, solo le cose, per quello che sono, per come ci attraversano nella loro contingenza.
L’incertezza, la pressione, la paura del fallimento, la frustrazione tutti riassunti in un “adesso vediamo”. Che non è: io comunque lo faccio, io comunque ci arrivo; è qualcosa di molto più delicato e gentile verso sé stessi.
È darsi la possibilità di farcela, ma anche di fallire. Di vedere, per l’appunto.
Prima di tutto se le braccia hanno voglia di muoversi, se il respiro si sblocca, se le acque diventano amiche, se i venti decidono di tirare dalla parte giusta, se la glicemia non fa brutti scherzi, se il peso mediatico che ha preceduto questa giornata non arriva addosso come un macigno, se i nervi restano saldi. Ha visto ogni cosa Simona, una ad una. Ed ogni cosa si è messa a funzionare.
E chissà, se tra una bracciata e l’altra, avrà pensato alla conversazione con suo padre la sera prima: “E se non ce la faccio?”, gli aveva chiesto. “Per il fatto che lo stai tentando, hai già vinto”, le aveva risposto lui.
Simona c’è arrivata alla fine. E sappiamo non essere impresa da tutti e quindi meritevole di plauso.
Però, durante l’intervista, è sulla sua quotidianità che ci soffermiamo maggiormente. Parlo con lei, ma anche con suo padre.
La loro è una famiglia in cui lo sport è stato sempre presente.
“Credo di essere riuscito a cogliere le attitudini e le caratteristiche dei miei figli. Per cui il primo si è indirizzato verso le arti marziali e il tennis, per Simona invece ho notato una predisposizione all’acqua. Quando abbiamo iniziato con l’agonismo, c’è stata la diagnosi di diabete. All’inizio siamo caduti in un assoluto sconforto. Questa è una di quelle cose che pensi non possa capitare a te. Al tempo dell’università, io condividevo casa con un ragazzo diabetico, e ricordo che non capivo nulla quando mi parlava di insulina e conta di carboidrati. Abbiamo reagito al diabete di Simona studiando, cercando di comprenderlo. Lei, d’altra parte, non si è mai lamentata. È sempre stata tranquilla, serena. E questo è stato un grande insegnamento. Ho sempre spronato mia figlia ad essere più ribelle, ma ora ho compreso il grande valore della sua pazienza. Ha accettato il diabete, ma non in maniera passiva, bensì volitiva. Si è rimboccata le maniche. E non ha mai smesso di nuotare. A metà allenamento, ogni giorno, esce dall’acqua e si misura la glicemia. È diventato un rito per tutta la squadra, un momento condiviso. Non si è mai fatto problemi, ha trovato la strada per fare quello che voleva fare”.
Io ascolto una famiglia che si racconta. Mi immagino il salotto, la cucina. Si trovano a Catanzaro e quindi ci sarà certamente più caldo rispetto alla mia casa di Parma.
Sentono le mie domande in vivavoce. Sono insieme, e quindi ascoltano le loro reciproche risposte.
Simona ascolta la sua storia, attraverso il punto di vista di suo padre.
Luigi ascolta la storia di Simona attraverso le sue stesse parole.
Chissà se qualcuna di queste frasi è arrivata alle orecchie dell’altro come cosa inedita.
Chissà se si avranno pensato: “Questo non lo sapevo di mia figlia”, “Questo non lo sapevo di mio padre”.
Ogni cosa muta costantemente. Così come capita alle nostre emozioni, delle quali inevitabilmente, a volte, ci sentiamo in balìa.
Mi sembra cosa saggia, quindi, applicare la filosofia di Simona.
Fare un bel respiro, e provare a dire a sé stessi: “D’accordo, adesso vediamo”.
A cura di Patrizia Dall’Argine