Autobiografie di diabete: il lato positivo, il caos e il viaggio

Grazie ai progressi della medicina e a tecnologie come per il monitoraggio e l’infusione di insulina, l’aspettativa e la qualità della vita di chi soffre di diabete di tipo 1 è nettamente migliorata.

Per alcune persone con diabete si è ipotizzata perfino una “scomparsa esperienziale” (Scheldman, 2010: 154): il diabete diventa qualcosa di normale, parte di una routine quotidiana, integrata nella vita di tutti i giorni. Ma è davvero così per tutti?

Leggendo alcune autobiografie di persone con diabete è possibile cercare di comprendere come questa condizione viene vissuta in modo diverso da persone diverse. 

Con l’autobiografia le persone costruiscono una narrazione del sé, del proprio mondo e del modo di dare significato alla vita e alle esperienze. Le autobiografie rappresentano una fonte utile per comprendere in profondità l’esperienza quotidiana anche nei suoi aspetti meno noti, attraverso le parole che sono frutto di una riflessione, e nei silenzi, tutto quello che viene tralasciato o che sfugge dalla possibilità di essere raccontato.

Tuttavia sarebbe ingenuo considerare l’autobiografia unicamente come un racconto personale, frutto della creatività dell’individuo applicato agli irripetibili fatti della sua vita. Ogni storia personale è costruita e narrata all’interno di un contesto sociale, si rivolge a un pubblico e attinge a un patrimonio di storie, di modelli narrativi, di script tipico e generalmente condiviso con quel pubblico. Sono le “narrazioni dominanti” che influenzano le scelte formali e stilistiche e determinano quali narrazioni sono socialmente “permesse” o vietate.  (Robinson, 1990):

 Chi decide di scrivere la propria autobiografia si muove all’interno di questi confini, magari per infrangerli, magari per riconfermarli, posizionando la storia del proprio sé e della propria esperienza con il diabete a fianco delle altre storie già narrate e ascoltate.

In una recente pubblicazione, dal titolo Representing diabetes: ‘Brightside’ and ‘chaos’ in autobiography, Mark Lucherini, lecturer presso l’Università di Keele in Inghilterra ed egli stesso paziente con diabete, ha provato a leggere e analizzare alcune autobiografie pubblicate nell’ultimo decennio per comprendere in che modo si esprime l’esperienza di persone con diabete di tipo 1.

Identifica narrazioni incentrate sugli esiti positivi, sulle storie di successo, eroi che ce l’hanno fatta a superare la sfida della malattia, che sono riusciti a riportare sotto controllo un corpo che non funziona come dovrebbe: sono le narrazioni del “Brightside(Diedrich, 2007), il lato positivo. 

Il sociologo Arthur Frank (2013) spiega che queste narrazioni sono quelle che vengono privilegiate nella cultura occidentale, a discapito delle narrazioni di Caos, che raccontano di disperazione, di problemi che non possono essere aggiustati e di corpi fuori controllo. Sono storie tragiche e che non trasmettono un senso di speranza, difficili da ascoltare, ma che mettono in luce le difficoltà di convivere con la malattia.

Entrambe queste forme di narrazione, che non si escludono l’una con l’altra, ma che in genere coesistono, rappresentano un tentativo di raccontare l’esperienza della malattia in modo credibile e anche un percorso di ricerca personale (Quest): l’atto stesso di scrivere è un tentativo di riprendere il controllo sull’esperienza di malattia, mettendo in ordine e attribuendole un significato.

Tuttavia nelle storie in cui prevale il Brightside, l’autore vede il rischio di non lasciare spazio alle problematiche e alle difficoltà che concretamente può vivere chi ne soffre. Il diabete è come un ostacolo da superare e lasciarsi alle spalle, per raggiungere il proprio successo e realizzazione personale. 
Questo punto di vista può far sì che chi non riesce a gestire la condizione al meglio, pur di non sentirsi “fallito”, la tenga nascosta e non si ritagli uno spazio di condivisione e di parola.

In una delle autobiografie classificate come narrazioni di caos, l’autore sottolinea la frustrazione di vivere in un mondo di vincenti: sostiene che c’è poca aspettativa di empatia per i problemi legati al diabete e quindi per molti è meglio lasciare che resti invisibile, silenzioso, nascondersi in bagno per fare le iniezioni e non manifestare le proprie difficoltà quando qualcuno chiede com’è.
Trovarsi da solo in mezzo alla natura può diventare motivo di ansia, il senso di dipendenza dagli altri può essere opprimente e la paura del futuro, oscurare il benessere presente.

Se le narrazioni positive rischiano di nascondere le difficoltà quotidiane, creando modelli idealizzati di persone con diabete, le narrazioni di caos rischiano di essere caratterizzate da un’eccessiva negatività: entrambe esprimono la ricerca di un equilibrio, nel tentativo di esprimere qualcosa che forse in fondo non è possibile esprimere con le parole. 

C’è una terza tipologia di autobiografia, che cerca proprio di fare i conti con i limiti della rappresentazione, con il conflitto tra la rappresentazione di sé, il modo in cui ci vedono gli altri e l’esperienza vissuta.
Questo tipo di narrazione ci ricorda che la soggettività è qualcosa di emergente e di incompleto, qualcosa che non può mai essere completamente afferrato né da noi né dagli altri.

L’autobiografia va forse letta come una narrazione di sé che non descrive un approdo definitivo, ma un viaggio ancora in corso e diventa per chi legge un invito a viaggiare insieme alla persona con diabete.

A cura di Francesca Memini


Bibliografia:

Lucherini, Mark. (2019). Representing diabetes: ‘Brightside’ and ‘chaos’ in autobiographyEmotion, Space and Society. 31. 10-17. 10.1016/j.emospa.2019.02.004.

Le autobiografie analizzate:

  • Nicole Johnson. Living With Diabetes (2001). 
  • John Keeler. Living Life with Diabetes (2004
  • Nic Lee. Sugar Beat: Diabetes From the Inside Out (2010). 
  • Norman Savage. Junk Sick: Confessions of an Uncontrolled Diabetic (2010). 
  • Andie Dominick. Needles (1998). (https://www.pulitzer.org/winners/andie-dominick-des-moines-register.
  • Lisa Roney. Sweet Invisible Body; Reflections on a Life with Diabetes (1999). 

Altri riferimenti bibliografici:

  • Diedrich, L., 2007. Treatments: language, politics, and the culture of illness. University of Minneapolis Press, Minneapolis.
  • Frank, A.W., 2009. Tricksters and truth tellers: narrating illness in an age of authenticity and appropriation. Lit. Med. 28, 185–199. https://doi.org/10.1353/lm.2009.0006.
  • Frank, A.W., 1997. Illness as a moral ooccasion: restoring agency to ill people. Health 1, 131–148.
  • Rasmussen, B., O’Connell, B., Dunning, P., COx, H., 2007. Young women with type 1 diabetes’ management of turning points and transitions. Qual. Health Res. 17, 300–310. https://doi.org/10.2337/dc07-2426.L.D.M.
  • Robinson, I., 1990. Personal narratives, social careers and medical courses: Analysing life trajectories in autobiographies of people with multiple sclerosis. Soc. Sci. Med. 30, 1173–1186. 
  • Scheldman, G., 2010. Technokids? Insulin pumps incorporated in Young People’s bodies and lives. In: Edwards, J., Harvey, P., Wade, P. (Eds.), Technologised Images, Technologised Bodies. Berghan Books, London, pp. 137–160.