PRESENTATO AL CONGRESSO EASD LO STUDIO PROACTIVE
Bassa glicemia, un bene per il cuore
Una vasta indagine su cinquemila diabetici di tipo 2 non ben compensati ha dimostrato l’efficacia di una nuova molecola ipoglicemizzante nel ridurre il rischio cardiovascolare: una conferma dell’importanza strategica del buon controllo glicemico
prof. Paolo Brunetti
Direttore Dipartimento di Medicina interna – Università degli Studi di Perugia
Il binomio diabete-rischio cardiovascolare sta acquistando una importanza sempre maggiore alla luce della diffusione epidemica del diabete di tipo 2 e dell’impatto crescente che questo esercita sulla salute pubblica. È noto infatti come il diabete aumenti da 2 a 4 volte il rischio di infarto del miocardio, ictus e arteriopatia ostruttiva degli arti inferiori. Inoltre, mentre nei soggetti non diabetici si è assistito, dagli anni ’70 a oggi a una progressiva, sensibile riduzione della incidenza di cardiopatia ischemica, nei diabetici non si è registrato un analogo progresso; anzi, le donne diabetiche hanno registrato nello stesso periodo, la tendenza opposta, cioè a un ulteriore incremento della patologia ischemica. A riprova di ciò, è stato documentato come, dal 1980 a oggi, sia andata progressivamente aumentando la frequenza di ospedalizzazione per eventi cardiovascolari associati al diabete. D’altro canto, il miglior controllo della glicemia ottenuto con una terapia più intensiva di quella convenzionale, pur essendo efficace nel ridurre, in una certa misura, le complicanze cardiovascolari del diabete di tipo 2, non ha mostrato gli straordinari effetti preventivi evidenziati invece nei confronti delle complicanze microangiopatiche (retinopatia, nefropatia, neuropatia).
L’atteggiamento terapeutico più corretto nei confronti del diabete di tipo 2 rimane comunque, oggi, quello di aggredire, con la maggiore intensità possibile, tutti i fattori di rischio cardiovascolare associati all’iperglicemia. È perciò necessario ridurre l’emoglobina glicata (HbA1c) a livelli compresi fra 6,5 e 7%, ma anche il colesterolo Ldl e i trigliceridi a valori rispettivamente inferiori a 100 e a 150 mg/dl, mentre è auspicabile un incremento del colesterolo Hdl al di sopra di 40-45 mg/dl; fondamentale è anche il controllo della pressione arteriosa, da ridurre al di sotto di 130/80 mmHg e la somministrazione di una piccola dose di aspirina (100 mg/die), particolarmente in soggetti già portatori di una patologia, anche minore, a carico dell’apparato cardiovascolare.
A prescindere dalla difficoltà che molto spesso si incontra nel raggiungere questi obiettivi, rimane il fatto che i soggetti diabetici, anche se trattati in modo ottimale, mantengono una quota di rischio cardiovascolare non interamente coperta dalla terapia.
Per questi motivi, si è considerata con particolare interesse l’introduzione in terapia della nuova classe di farmaci, i glitazoni o tiazolidinedioni, accreditati, oltre che dell’effetto ipoglicemizzante di una serie di azioni tutte orientate in senso antiaterogeno. Infatti, i glitazoni (rosiglitazone e pioglitazone), insieme con i riconosciuti effetti metabolici (riduzione della glicemia e dei trigliceridi e innalzamento del colesterolo Hdl), hanno la proprietà di moderare la condizione proinfiammatoria e protrombotica associata alla resistenza insulinica e al diabete di tipo 2 e responsabile, insieme con gli altri fattori, di una quota importante del rischio cardiovascolare.
In proposito, nel corso del Congresso della Associazione europea per lo studio del diabete (Easd) ad Atene, il 12 settembre 2005, sono stati presentati i risultati, da tempo attesi, dello studio “PROactive” (“Prospective pioglitazone clinical trial in macrovascular events”) disegnato per valutare l’efficacia della terapia con pioglitazone nel ridurre il rischio cardiovascolare in un ampio numero di diabetici di tipo 2 ad alta vulnerabilità per eventi cardiovascolari. È questo il più grande studio eseguito sul diabete di tipo 2, dopo l’Ukpds che si è concluso nel 1997. Sono stati arruolati oltre 5000 pazienti, tutti caratterizzati da un insufficiente controllo metabolico e da una pesante storia pregressa di patologia cardiovascolare.
Tutti i pazienti sono stati trattati in modo ottimale, secondo le linee guida della Idf, utilizzando al meglio tutti i farmaci disponibili, insulina inclusa, per compensare il diabete e correggere i fattori di rischio associati, quali iperlipidemia e ipertensione arteriosa. Alla metà dei pazienti è stato somministrato, in aggiunta, il pioglitazone, per lo più alla dose massima di 45 mg/die, e tutti sono stati seguiti per un periodo medio di 35 mesi.
I risultati ottenuti, globalmente considerati, sono stati assai positivi. Il dato più saliente, che conferma la validità della ipotesi sulla quale si fonda lo studio, è la riduzione del 16%, nei pazienti trattati con pioglitazone, rispetto ai controlli, della incidenza di infarto del miocardio, di ictus e di mortalità da tutte le cause.
Nel commentare questi risultati, è necessario sottolineare come il tempo di osservazione sia stato relativamente breve, verosimilmente non sufficiente per documentare appieno l’efficacia del farmaco sulla comparsa di complicanze croniche, a lungo termine, come quelle cardiovascolari. È possibile che un trattamento più prolungato avrebbe ulteriormente aumentato la significatività statistica del risultato. Ricordiamo al proposito come gli altri grandi trial clinici dedicati al diabete di tipo 1 e 2, rispettivamente il Dcct e l’Ukpds, abbiano avuto una durata di 10 anni.
Inoltre, la casistica raccolta per lo studio PROactive, conformemente ai criteri di inclusione stabiliti dal protocollo, era costituita da pazienti già affetti da una importante patologia aterosclerotica pregressa, che ha certamente aumentato la probabilità di insorgenza di ulteriori eventi cardiovascolari, rendendone tuttavia, al tempo stesso, più difficile la prevenzione, per la maggiore gravità e lo stadio evolutivo più avanzato del danno vasale.
In definitiva, è lecito affermare, come recentemente sottolineato in una dichiarazione ufficiale della American diabetes association, che il PROactive è il primo studio clinico randomizzato e controllato a dimostrare che un farmaco ipoglicemizzante, il pioglitazone, è in grado di ridurre il rischio di eventi cardiovascolari maggiori in diabetici di tipo 2 ad alto rischio. In precedenza, risultati positivi sulla mortalità erano stati ottenuti soltanto in un piccolo sottogruppo di soggetti obesi trattati con metformina, nell’Ukpds, ma l’associazione della metformina con una sulfonilurea, lungi dal confermare questo risultato, aveva mostrato un aumento della mortalità.
Un altro risultato dello studio, meritevole di menzione, è la netta riduzione del ricorso alla terapia insulinica dei pazienti trattati con pioglitazone. All’inizio dello studio, circa il 30% dei pazienti era già in trattamento insulinico, in monoterapia o in combinazione con ipoglicemizzanti orali. Durante lo studio e fino al termine di questo, il 21% dei pazienti di controllo, non in terapia insulinica all’inizio dello studio, ma soltanto l’11% di quelli trattati con pioglitazone, sono passati alla terapia insulinica permanente. Il trattamento con pioglitazone ha ridotto quindi del 50% la necessità di ricorrere alla terapia insulinica e questa differenza, altamente significativa, è certamente da attribuire alla efficacia del farmaco nel ridurre la resistenza insulinica e a esercitare un effetto protettivo sulle cellule beta-pancreatiche, così da conservare nel tempo una quota maggiore di secrezione insulinica residua.
I pazienti trattati con pioglitazone hanno mostrato, rispetto ai controlli, un migliore assetto dei parametri metabolici ed emodinamici. In particolare, si è osservata una riduzione di 0,5% della emoglobina glicata (HbA1c), una riduzione della concentrazione plasmatica dei trigliceridi del 13.2% e un aumento del 9% del colesterolo Hdl. La pressione arteriosa sistolica è anche ridotta nei pazienti trattati con pioglitazone di 3 mmHg e la differenza fra i due gruppi è significativa.
Questi risultati possono giustificare, almeno in parte, gli effetti preventivi esercitati dal pioglitazone sulla comparsa di eventi cardiovascolari, ma è anche lecito affermare, sulla base di studi clinici diversi dal PROactive, che parte degli effetti terapeutici del farmaco è legata alle sue proprietà antinfiammatorie. La riduzione della concentrazione plasmatica della Proteina C reattiva (Pcr) e di altri marker infiammatori osservata in vari studi testimonia questa attività. D’altro canto, è noto come la Pcr sia considerata oggi un marker predittivo di eventi cardiovascolari, indipendente da altri fattori di rischio (iperlipidemia, ipertensione arteriosa, iperglicemia).
Anche nel PROactive, come in altri studi eseguiti con un glitazonico, si è osservato un certo incremento ponderale (3,6 kg in media contro una riduzione di 0,4 kg nei controlli), da riferire, in parte, a un aumento reale del tessuto adiposo sottocutaneo, peraltro a scapito del grasso viscerale, e, in parte, a un certo grado di ritenzione idrica (responsabile a sua volta, in una piccola percentuale di soggetti, della comparsa di edemi declivi).
Un elemento di preoccupazione emerso dallo studio è rappresentato dalla maggiore incidenza di scompenso di cuore rilevato dall’indagine o riportato come causa di ricovero ospedaliero. Alla maggiore frequenza dello scompenso di cuore non corrisponde tuttavia, nei soggetti trattati con pioglitazone, una maggiore mortalità per la stessa causa. È perciò verosimile che alla diagnosi di scompenso di cuore abbia contribuito erroneamente il semplice rilievo di edema. Le autorità regolatorie hanno tuttavia ritenuto di dover escludere dal trattamento con i glitazonici i soggetti con insufficienza cardiaca in uno stadio anche non avanzato (eguale o superiore alla classe II Nyha – New York Heart Association).
Infine, il timore di una tossicità epatica del pioglitazone alimentato dai risultati della precedente esperienza con troglitazone è stato totalmente sfatato dal PROactive come da altri studi precedenti. In effetti, il pioglitazone induce una riduzione della concentrazione serica di transaminasi e gamma-glutamiltransferasi, secondaria alla riduzione della infiltrazione lipidica epatocitaria ed esercita quindi un effetto benefico sulla steatoepatite non alcolica (Nash) causa frequente di ipertransaminasemia non determinata da infezione virale.
I PROGRESSI DELLA TERAPIA FARMACOLOGICA
Medicine di prima scelta
I risultati dello studio PROactive autorizzano pertanto a includere il pioglitazone fra i farmaci di prima scelta, insieme alla metformina e agli inibitori delle alfa-glicosidasi (acarbose) nel trattamento di pazienti diabetici di tipo 2. Minore rilevanza rispetto al passato assume l’utilizzo dei farmaci secretagoghi oggi disponibili (sulfoniluree e glinidi), mentre l’insulina e, in particolare, i suoi analoghi ad azione ritardata e rapida, sono indicati laddove la terapia ipoglicemizzante orale non abbia avuto successo. Molta speranza viene riposta infine nella futura disponibilità di composti capaci di migliorare il trofismo e la funzione delle cellule beta-insulari, quali il glucagon-like peptide o Glp-1. (P.B.)
RISCHI DIVERSI A CONFRONTO
Se il diabete non c’è
È particolarmente significativa una esperienza recentemente riferita da un autore tedesco, N. Marx, al 54° Congresso annuale dell’American College of Cardiology nel marzo 2005, La somministrazione di pioglitazone a soggetti non diabetici sottoposti ad angioplastica con inserimento di stent (stampo usato per sostenere innesti o trapianti cutanei – n.d.r.) per una patologia occlusiva coronarica, ha ridotto, in maniera significativa, la tendenza alla riocclusione del vaso che, con una frequenza non trascurabile, anche se inferiore a quella osservata nei diabetici, caratterizza questa procedura. Questo effetto, certamente non conseguente agli effetti metabolici del farmaco, perché osservato in soggetti non diabetici e quindi indenni da qualsiasi alterazione del metabolismo glucidico, si deve alla inibizione esercitata dal farmaco sulla proliferazione e sulla migrazione delle cellule muscolari lisce della parete arteriosa responsabili della estensione della placca aterosclerotica all’interno del tratto sottoposto a stent, con conseguente riduzione del lume, e alla inibizione del processo infiammatorio della parete vascolare che sottende l’intero processo aterosclerotico in tutte le sue fasi evolutive. (P.B.)