Call to action: crediamo nel potere delle storie, raccontaci la tua

Man man che si avvicinava il 4 maggio, mi sono accorta di non provare quel sollievo, quel senso di ritrovata libertà che pensavo avrebbe coinciso con l’avvento della fase 2.
Mi sono interrogata a lungo e recentemente ho visto tradotta questa strana, nuova ansia – che nulla ha a che vedere con quella che ha definito la prima parte della quarantena – in numerosi articoli sul web; segno che quello che sto provando io, lo stanno provando molte altre persone. 
“Sindrome della capanna”, la chiamano. Neanche a dirlo, la sua origine è diretta conseguenza di un evento stressante che modifica il modo di vedere e sentire le cose, per cui ciò che prima era percepita come normalità ora produce un senso di inadeguatezza. Il fatto è, che non sappiamo più cos’è diventata la normalità alla quale eravamo abituati. 
Quindi la casa ha assunto il valore di rifugio, di luogo sicuro, ed ora affacciarsi di nuovo alla vita costa fatica. 
Ma una cosa è certa, alla vita bisogna tornare.

Oggi mi è capitata tra le mani una frase di Albert Camus: “Cos’è la felicità se non il sincero accordo tra l’uomo e la vita che conduce?”.
Non abbiamo smesso di vivere in questi mesi. Ci siamo ritagliati una routine, abbiamo creato un nuovo sistema, un micro-sistema a misura di casa. In molti sono riusciti a lavorare da remoto, tramite il proprio computer. Altri hanno riscoperto passioni antiche, accantonate da chissà quanto. C’è chi ha provato a costruire finalmente una quotidianità diversa, che prende le distanze dalla frenesia dentro la quale eravamo risucchiati e senza la quale non riuscivamo più a vivere. 
Ci siamo fermati. Ci dovevamo fermare. 

Che cos’è la felicità se non il sincero accordo tra l’uomo e la vita che conduce?

Mai come ora ci rendiamo conto che abbiamo un dovere. Siamo chiamati alla felicità. Non possiamo più considerarla un privilegio per pochi, o un momento occasionale, un traguardo che osserviamo con rassegnazione, irraggiungibile, lontano, mutabile e poco concreto.
Il problema, forse, è che consideriamo la felicità come un qualcosa che arriva da fuori in concomitanza del fare… e se invece provassimo a considerarla come un qualcosa che arriva da dentro in concomitanza dell’essere?
Che bello sarebbe sparigliare tutte le carte sul tavolo, trasformare le nostre credenze preconcette, abituarci a noi, alla nostra vera essenza e dolcemente, senza rabbia, abbandonare l’immagine che abbiamo costruito di noi.
Il fatto è che mai come ora ci siamo ritrovati a tu per tu con la nostra vocazione. 
E la vocazione ha bussato la porta ogni giorno di questa forzata clausura, chiedendo conto di ciò che abbiamo fatto finora: “Perché hai accantonato quella visione di te?”. Oppure, per i più fortunati, “Continua così, questa è la strada giusta”.

Oggi abbiamo tutti bisogno di trovare ispirazioni nelle storie degli altri. Di credere che questo “sincero accordo” sia possibile nonostante le resistenze interne e gli auto-sabotaggi che costantemente ci infliggiamo, e nonostante le condizioni che ci sono state imposte e che non abbiamo scelto: il diabete, ad esempio. 

Raccontateci la vostra storia. Raccontateci delle vostre piccole e grandi imprese quotidiane. 
Della vostra vocazione, che neppure il diabete è riuscito a spegnere. 
Raccontateci della vita, dei dossi, del cadere e del rialzarsi e del cadere ancora. 
Non siamo alla ricerca di successi, siamo alla ricerca di prodigi. 
Il prodigio di chi sa frequentare il fallimento, e con forza nuova, da lì, ripartire. 
Raccontateci di cosa avete imparato, in modo che possiamo impararlo tutti.
E mentre vi aspetto, oggi mi prendo un piccolo impegno. Uscire e passeggiare sull’argine che costeggia casa mia. Avrò con me la mascherina. Non sarà come prima, certo, ma questa, ora, è la realtà che abbiamo a disposizione e non può esserci un felice accordo nella mia vita senza la natura e senza i passi che mi servono per andarla a incontrare.  

Patrizia Dall’Argine