Campo Base Avanzato, 17 settembre 2002

Cho Oyu, Campo Base Avanzato (ABC), 5770 m, 17 settembre 2002

“… laggiù è come la metropoli dove compie le sue gesta il manipolatore di rigiri, ma quassù siamo fra esseri abituati alla testimonianza del sole e del vento, alle grandi cose di fronte a cui è inutile mentire”.
Estrapoliamo da “Segreto Tibet” di Fosco Maraini, il grande scrittore italiano la cui preziosa compagnia sulle cose d’oriente non sappiamo abbandonare, un brano significativo e paradossale per illustrarvi brevemente la popolazione delle alte quote himalayane, ovverosia del nostro affollato e intrigante campo base. Bisogna dire che lo straordinario studioso toscano (Maraini, per le sue conoscenze, i suoi viaggi e l’esperienza vissuta di ciò che ci parla nei suoi libri è davvero una persona fuori dall’ordinario rispetto a coloro che consideriamo grandi scrittori) nella frase sopracitata ci sta parlando di organismi vegetali, ma noi, con la libertà concessa a chi s’innamora di una bella frase adattabile ad altri contesti, vorremmo parlare di organismi animali, delle persone che si riuniscono in quell’unica area strategica per la salita di una grande montagna che si suole denominare campo base.
Per gli addetti ai lavori, quando si parla del Cho Oyu, si sa che sotto le sue aride pendici si ritrova ogni anno il più grande assembramento di persone (alpinisti e sherpa) dedite a un unico e ambizioso scopo: la salita di un ottomila. La “Dea del Turchese”, d’altro canto, è una montagna dalle forme bellissime e suadenti che incantano non solo l’alpinista, ma anche il viaggiatore che lambisce con lo sguardo le cime himalayane offerte dagli ampi spazi degli assolati altipiani tibetani. Per fare un paragone estetico comprensibile all’osservatore italiano, il K2 sta al Cervino come il Cho Oyu sta al Pelmo. E per chi conosce le slanciate e severe forme del Pelmo, magari per aver percorso le sue verticali pareti, amplificate quindi dal paragone in dimensioni himalayane, s’immagini di quale bellezza e potenza i nostri occhi si alimentano ogni giorno durante la permanenza al campo base. Inversamente, dalle morene che conducono al Campo 1, una miriade di piccoli e coloratissimi puntini colorati disegnano nel grigiore delle infinite pietraie una piccola cittadina dai contorni e dalle caratteristiche poco definite, se si vuole misteriose, o meglio confuse. Ad entrarci, infatti, una babele di lingue e di stili d’accampamento fanno subito capolino tra i nostri occhi, curiosi, e le nostre orecchie, stupite. Circa una ventina di spedizioni da ogni parte del mondo albergano tra gli sterili sassi e la finissima sabbia morenica che formano la sostanza di base di questo multicolore attendamento. Se si volesse sezionare idealmente il clima internazionale del campo base, con buona probabilità, si potrebbe dividere per terzi i gruppi dominanti: asiatico (cinesi, giapponesi, sherpa nepalesi e autoctoni tibetani), anglo-germanico (inglesi, americani, neozelandesi, tedeschi, austriaci e svizzeri) e latini (italiani e spagnoli). Qualche centinaio di persone che barcollano nei loro rapporti tra l’indifferenza più assoluta alla confidenza più sincera. Non è qui il momento e il luogo per avventurarsi in sommarie analisi antropologiche e sociali per capire cosa spinge una moltitudine difforme di persone verso un unico obiettivo (l’unica cosa quasi certa che posso sottolineare è il disinteresse dei tibetani nei confronti di tale obiettivo e confesso che l’incomunicabilità tra noi e loro m’impedisce di confermare questo loro “interessante” supposizione), ma il pensiero iniziale di Maraini e due righe del messaggio spedito ieri da Marco m’induce, di proposito, verso una riflessione di conclusione.
Che il luogo delle altezze, dove il vento e il sole dominano con i loro cicli imprevedibili e le loro forze essenziali e distruttrici la vita di noi tutti, sia il luogo dove non è possibile mentire, è una profonda verità, almeno fin quando noi restiamo noi stessi e le altezze intoccate nella loro identità. Ma quando per salire una grande montagna ricorriamo ai sotterfugi di “laggiù… dove compie le sue gesta il manipolatore di rigiri”, dove non siamo più noi stessi a salire verso l’alto, ma appoggiandoci all’aiuto degli altri appositamente chiamati per fare ciò (un esempio sono gli sherpa), o peggio ancora cambiamo le condizioni delle altezze (vedi le bombole d’ossigeno che in buona quantità circolano tra i campi), quando succede tutto ciò e ci troviamo circondati da un vocifero, a volte volgare, di centinaia di persone e non dal silenzio delle montagne, forse “non siamo più di fronte alle grandi cose a cui è inutile mentire”.
Dalle finestre della nostra tenda, in lontananza, contemplo il Khumbu La (il passo del Khumbu che conduce in Nepal) e le sue splendide montagne, per lo più sconosciute e mai salite. Un giorno, forse, torneremo per ritrovare le autentiche testimonianze del sole e del vento.

Alberto Peruffo

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