Si definisce prediabete una condizione intermedia fra il diabete di tipo 2 e lo stato di normalità. È diabete ogni condizione caratterizzata da valori di glicemia, misurata a digiuno nel plasma venoso, eguale o superiore a 126 mg/dl o da valori di glicemia, 2 ore dopo un carico di glucosio di 75 g, eguale o superiore a 200 mg/dl. La scelta di questi valori si fonda sulla osservazione, derivata da alcuni studi sulla popolazione, secondo i quali è proprio in concomitanza con queste cifre che si instaurano, nel corso del tempo, le complicanze croniche della patologia e, in particolare, la retinopatia diabetica.
Poiché si ritengono normali i valori di glicemia al di sotto di 100 mg/dl, è implicito che il prediabete copre quella fascia di valori glicemici rilevati a digiuno compresi fra 100 e 125 mg/dl. A questa condizione è stata attribuita la definizione di “anomala glicemia a digiuno” (Impaired fasting glucose o Ifg). Inoltre, poiché una normale risposta al carico orale di glucosio è caratterizzata da valori di glicemia alla seconda ora inferiori a 140 mg/dl, vengono riferiti a una condizione di prediabete, definita questa volta “intolleranza al glucosio” (Impaired glucose tolerance, Igt), anche i valori alla seconda ora del carico orale di glucosio compresi fra 140 e 199 mg/dl.
Più recentemente, un nuovo criterio è venuto ad aggiungersi a quelli fondati sulla valutazione della glicemia. Secondo l’American diabetes association, anche un valore di emoglobina glicata (HbA1c) eguale o superiore al 6,5% è indicativo di una condizione di diabete. Anche seguendo questo criterio diagnostico, si configura una condizione intermedia fra diabete e normalità (prediabete) corrispondente a valori di HbA1c compresi fra 5,7 e 6,4%.
Il prediabete, comunque inteso, più che una entità clinica autonoma, deve essere quindi considerato come uno stadio convenzionale che si colloca lungo un continuum che contrassegna la storia naturale del diabete e che ne lascia prevedere la futura comparsa se non si interviene in maniera preventiva. La transizione dal prediabete al diabete può impiegare diversi anni, ma può essere anche assai rapida. Quel che è certo è che all’incirca il 70% dei prediabetici svilupperà il diabete in un tempo più o meno lungo. La restante quota rimarrà immodificata o vedrà il ritorno a una condizione di normotolleranza glucidica.
Dalla International diabetes federation (Idf) desumiamo le dimensioni del fenomeno prediabete. Si calcola che, a livello mondiale, vi siano circa 344 milioni di soggetti con Igt, e che nel 2030 questa cifra salirà a 472 milioni,con una prevalenza, nella popolazione di età compresa fra 20 e 79 anni, destinata a variare dal 10,2 all’11%. Includendo anche i pazienti con diabete conclamato, si può calcolare che, per la stessa data (2030), circa un miliardo di soggetti, nel mondo, saranno portatori di una forma più o meno grave di disordine del metabolismo del glucosio. Da qui l’urgente necessità di un intervento che ponga un argine alla diffusione epidemica del diabete prevenendone l’insorgenza a partire dalle sue fasi più precoci e cioè dal prediabete.
La sindrome metabolica, in quanto tale, può essere definita di per sé una condizione di prediabete. Dall’accumulo di tessuto adiposo viscerale deriva infatti una serie di segnali metabolici responsabili della comparsa di una condizione di resistenza insulinica, a livello sia epatico sia periferico, e di una riduzione della secrezione insulinica.
Diabete, prediabete, obesità e sindrome metabolica riconoscono come elementi causali, insieme con indiscussi fattori genetici, un eccesso di introduzione calorica e un difetto di attività fisica. È perciò implicito che le modificazioni dello stile di vita debbano rappresentare lo strumento primario di prevenzione e di cura di tutte le forme di abnorme regolazione del metabolismo del glucosio. Una serie di studi ha dimostrato, in effetti, la possibilità di prevenire la progressione dal prediabete al diabete e di ridurre il rischio di complicanze micro e macrovascolari intervenendo sullo stile di vita.
Lo studio di Malmö (Eriksson KF, Lindgard F) è stato uno dei primi a dimostrare come soggetti affetti da Igt vedessero ridurre, in maniera significativa, l’incidenza di diabete, dopo un follow up di 6 anni, con un intervento sullo stile di vita, consistente nella correzione della dieta e nella introduzione di una quota di esercizio fisico, rispetto a un gruppo sottoposto a trattamento standard. Ancora più importante l’osservazione secondo cui, a distanza di 12 anni, i soggetti con Igt sottoposti in precedenza all’intervento attivo presentavano un tasso di mortalità decisamente inferiore a quello dei soggetti di controllo.
La conferma della efficacia delle modificazioni dello stile di vita è venuta poi da una ulteriore serie di studi clinici controllati che si sono succeduti nel tempo. Nello studio cinese Da Qing, circa 600 soggetti con Igt sono stati suddivisi in quattro gruppi per i quali erano previsti: 1) un trattamento esclusivamente nutrizionale; 2) la sola intensificazione della attività fisica; 3) una combinazione di dieta e movimento; 4) nessun intervento. Sia con la dieta sia con l’esercizio fisico, si è avuta una significativa riduzione della conversione a diabete. Una successiva valutazione, eseguita a distanza di 20 anni, nel 2006, ha inoltre dimostrato come i soggetti sottoposti a intervento avessero ancora una incidenza di diabete più bassa del 43% rispetto ai controlli.
Le maggiori conferme della validità di un approccio preventivo fondato sulle modificazioni dello stile di vita vengono tuttavia da due studi: lo studio finlandese Diabetes prevention study (Dps) e lo studio americano Diabetes prevention program (Dpp). Entrambi hanno seguito un approccio simile, caratterizzato da interventi strutturati individuali di natura nutrizionale, motoria e comportamentale. I protocolli prevedevano una riduzione del peso corporeo del 5% (Dps) o del 7% (Dpp), una correzione della dieta sia per quel che concerne la riduzione dell’apporto calorico sia il contenuto di grassi totali (meno del 30% dell’apporto energetico totale con meno del 5% di grassi saturi) e un aumento dell’apporto di fibre (almeno 15 g/die), e una attività fisica moderata di almeno 30 minuti al giorno (Dps) o di 150 minuti o più la settimana (Dpp). Orbene, in entrambi gli studi, si è ottenuta una riduzione dell’incidenza di diabete di ben il 58%, dopo un follow up rispettivamente di 3 (Dps) e di 2,8 anni (Dpp). Va inoltre sottolineato, a ulteriore riprova dell’efficacia dell’intervento, come nessuno dei soggetti che era riuscito a realizzare integralmente le modificazioni dello stile di vita abbia successivamente sviluppato, durante il periodo di osservazione, il diabete.
Nel Dpp era anche previsto un gruppo trattato con metformina. La metformina è risultata meno efficace dell’intervento sullo stile di vita, con una riduzione dell’incidenza del diabete di solo il 31%. Inoltre, è risultata pressoché inefficace nei soggetti al di sopra dei 60 anni di età e nei non obesi con indice di massa corporea inferiore a 30.
CHE COSA SONO IFG, IGT E CGI
I segnali d’allarme
L’incidenza di diabete d tipo 2 è più alta nei soggetti con intolleranza combinata al glucosio (Cgi, combined glucose intolerance) rispetto a quelli con Ifg o Igt isolata. Il rischio di sviluppare il diabete dei soggetti con Ifg o Igt isolata è del 5-10% ogni anno contro lo 0,7% dei soggetti normoglicemici all’inizio della osservazione.
In realtà, la glicemia rappresenta un fattore di rischio continuo anche nell’ambito dei valori di normalità della glicemia e della HbA1c. Livelli di glicemia a digiuno compresi fra 90 e 94 mg/dl (5-5,2 mmol/l) comportano un rischio di evolversi verso il diabete di circa il 50% maggiore rispetto a valori inferiori a 85 mg/dl (4,7 mmol/l).
Sia l’Ifg sia l’Igt, quest’ultima in modo più evidente, rappresentano un fattore di rischio per la comparsa di complicanze cardiovascolari che possono precedere la comparsa del diabete. Anche per quanto riguarda le complicanze cardiovascolari, il rischio è continuo all’interno dell’area considerata normale di glicemia a digiuno e di emoglobina glicata. Il prediabete può associarsi anche allo sviluppo di microangiopatia. Depongono in questo senso i dati desunti dal Diabetes prevention program (Dpp), secondo cui il 7,9% dei soggetti con Igt presentava segni evidenti di retinopatia. La diagnosi di prediabete presuppone la valutazione della glicemia a digiuno e/o dopo carico di glucosio. Ciò presuppone uno screening della popolazione a rischio.
Sebbene Ifg e Igt rappresentino entrambi uno stato intermedio tra la normale tolleranza al glucosio e il diabete, il più delle volte non sono contemporaneamente presenti nello stesso individuo. Una intolleranza combinata al glucosio, comprensiva cioè di Ifg e di Igt, è infatti presente soltanto nel 15-20% di tutti i soggetti. Il 30-45% dei soggetti con Ifg hanno anche Igt, mentre il 20-25% dei soggetti con Igt hanno anche Ifg. Ciò si deve al fatto che Ifg e Igt, per quanto entrambi precursori del diabete, riconoscono due differenti meccanismi fisiopatologici.
Sia Ifg sia Igt sono due condizioni di insulinoresistenza ma, mentre nella Ifg vi è una resistenza insulinica epatica, ma una normale sensibilità insulinica a livello muscolare, nella Igt avviene il fenomeno contrario. Nei soggetti con intolleranza al glucosio combinata la resistenza insulinica è presente a livello sia epatico sia muscolare, configurandosi così una condizione di maggiore gravità. Le due condizioni divergono anche per quel che concerne il deficit di secrezione insulinica. Nella Ifg vi è una riduzione della fase precoce della risposta insulinica, mentre la fase tardiva di risposta insulinica al carico di glucosio è meglio conservata rispetto ai soggetti con Igt. In questi ultimi vi è invece una maggiore compromissione della secrezione insulinica che interessa sia la fase precoce sia quella tardiva. Queste diverse caratteristiche metaboliche aiutano a comprendere il diverso profilo glicemico del carico di glucosio osservato nelle due condizioni. Nella Ifg il deficit precoce della secrezione insulinica, insieme con la predominante resistenza epatica, determina un incremento della glicemia superiore a quello osservato nei normotolleranti durante i primi 60 minuti dell’Ogtt (oral glucose tolerance test), con successivo ritorno alla normalità dopo 120 minuti, in virtù della conservazione di una normale sensibilità insulinica muscolare e della risposta insulinica tardiva. Nei soggetti con Igt, invece, a causa della resistenza insulinica muscolare e della deficitaria risposta insulinica tardiva, la glicemia aumenta dopo 60 minuti e rimane elevata dopo 120 minuti. I soggetti con intolleranza al glucosio combinata mostrano, come è logico attendersi, valori di glicemia più elevati a ogni tempo dell’Ogtt.
LE CHIAVI DELLA PREVENZIONE
Mangiar sano e camminare
I buoni comportamenti fanno bene non soltanto alla salute delle persone, ma anche ai bilanci del sistema sanitario: è necessario superare le barriere, pratiche e culturali, che ostacolano i cambiamenti e consolidano le cattive abitudini
L’efficacia ampiamente dimostrata delle modificazioni dello stile di vita, la persistenza nel tempo degli effetti benefici, anche a distanza di molti anni dal termine dell’intervento attivo, e l’assenza di effetti collaterali indesiderati che, in varia misura, caratterizzano invece l’impiego delle classi di farmaci finora impiegate, portano alla conclusione che la strategia di prevenzione del diabete di tipo 2, oggi estremamente necessaria per la diffusione epidemica della malattia, debba essere orientata primariamente verso lo stile di vita, piuttosto che verso l’impiego di farmaci, anche se ciò presuppone lo sviluppo di competenze e di servizi finalizzati al cambiamento comportamentale, la reperibilità delle relative risorse e il superamento delle barriere che si frappongono al cambiamento.
Gli ostacoli alle modificazioni dello stile di vita sono di vario tipo e facilmente intuibili. Possono risiedere nella mancata elaborazione di linee guida che il medico di medicina generale deve trasmettere al paziente, ma anche e soprattutto in varie difficoltà di ordine culturale, sociale ed economico. In effetti, senza un supporto esterno, la difficoltà di intraprendere un percorso di cambiamento, introducendo nel proprio stile di vita limitazioni di ordine dietetico e un impegno non sempre gradito a intensificare la propria attività fisica, è difficilmente superabile.
Lo studio americano Dpp è stato analizzato anche sotto il profilo economico, giungendo alla conclusione che l’intervento, malgrado i costi derivanti dall’impiego di personale (medici, dietisti, trainer), durante l’intervento attivo e le successive fasi di richiamo, ha un rapporto costo/beneficio positivo. Secondo lo studio, è necessario trattare 7 soggetti portatori di prediabete (Igt) per prevenire un caso di diabete. Orbene, il risparmio realizzato in prospettiva dalla prevenzione di un caso di diabete, con il carico di costi diretti e indiretti che questo comporta, soprattutto per la verosimile futura insorgenza di complicanze croniche, supera i costi che si devono affrontare per realizzare l’intero intervento.
L’urgenza del problema è tale che in diversi Paesi sono in atto veri tentativi per tradurre nella pratica clinica gli insegnamenti derivati dagli studi controllati e randomizzati che abbiamo citato. Un modello innovativo è quello realizzato a Perugia nel Centro universitario ricerca interdipartimentale attività motoria (Curiamo). Il centro, convenzionato con l’Azienda sanitaria, si avvale della collaborazione di diverse figure professionali: specialisti in endocrinologia e pediatria, medicina dello sport, psicologia e pedagogia, scienza della alimentazione o dietiste, infermieri e medici esperti in terapia di gruppo e organizzatori di attività all’aperto. L’intervento, della durata iniziale di tre mesi, consiste in un approccio nutrizionale individuale e di gruppo, nell’implementazione di un esercizio fisico personalizzato e supervisionato, di tipo aerobico e di forza muscolare, in una palestra adeguatamente attrezzata, e in un approccio psicologico motivazionale al cambiamento. Il metodo si avvale inoltre di gruppi pedagogici di supporto al cambiamento, di escursioni in gruppo e di attività di nordic walking. Dopo i primi tre mesi di intervento, i pazienti sono avviati a una attività di supporto psicoterapeutico al cambiamento con 12 incontri di gruppo (uno la settimana).
I risultati finora ottenuti sono oltremodo incoraggianti con una riduzione del peso corporeo, della circonferenza alla vita, della massa grassa, della capacità aerobica e un miglioramento della qualità di vita e, nei soggetti già affetti da diabete, della glicemia e della emoglobina glicata, con una parallela riduzione dell’uso di farmaci ipoglicemizzanti e anti-ipertensivi.
Anche questa esperienza, al pari di quella derivata dagli studi clinici controllati, induce a privilegiare l’intervento sullo stile di vita rispetto all’impiego dei farmaci nella prevenzione del diabete nei soggetti portatori di Ifg o Igt. Tuttavia, nei casi in cui alla anomalia della glicemia a digiuno o alla intolleranza al glucosio si associno anche uno o più fattori di rischio per il diabete, l’American diabetes association suggerisce di combinare all’intervento sullo stile di vita la somministrazione di metformina. Spetta al giudizio del medico e a una accurata valutazione della gravità del disordine metabolico, della velocità della sua progressione e delle caratteristiche cliniche dei singoli soggetti stabilire il possibile impiego di altri farmaci che, negli studi controllati, hanno mostrato efficacia e una sufficiente sicurezza di impiego.
Chi sono i soggetti a rischio
Il primo tempo da affrontare in una campagna di prevenzione del diabete è l’individuazione dei soggetti a rischio di sviluppare il diabete che rispondono alle seguenti caratteristiche e ai quali va indirizzata la prevenzione.
• Familiari di primo grado affetti da diabete
• Sovrappeso, obesità e sindrome metabolica
• Presenza di malattie cardiovascolari, ipertensione arteriosa o dislipidemia (aumento dei trigliceridi e riduzione del colesterolo Hdl)
• Storia di diabete gestazionale o parto di neonati di peso superiore a 4 kg
• Sindrome dell’ovaio policistico
di Paolo Brunetti, già professore ordinario di Medicina interna all’Università di Perugia