D: La vitamina del sole

SI ASSORBE CON I RAGGI SOLARI E IL CIBO

È la D e interviene in molti processi importanti del nostro organismo: autorevoli studi dimostrano che la sua carenza può aumentare il rischio di diabete, sia di tipo 1 sia di tipo 2, e di malattie cardiovascolari

di Paolo Brunetti già professore ordinario di Medicina interna all’Università di Perugia Numerosi studi condotti in anni recenti indicano l’esistenza di una associazione tra un possibile deficit di vitamina D, da un lato, e una aumentata incidenza di diabete e di eventi cardiovascolari, dall’altro. La vitamina D si assorbe con l’esposizione al sole e si trova in alcuni alimenti importanti come pesci grassi, latte e derivati, uova, olio di fegato di merluzzo, verdure verdi.

Concentrazioni plasmatiche di 25(OH)D -la forma detta “idrossilata in posizione 25”, quella che la vitamina D assume nel fegato- inferiori a 20 ng/ml (nanogrammi per decilitro, il parametro di riferimento) definiscono una condizione di grave deficit vitaminico, mentre valori compresi fra 21 e 29 ng/ml indicano comunque una condizione di insufficienza. In accordo con queste definizioni, una fascia assai ampia della popolazione ha un deficit di vitamina D. Secondo la terza National health and nutrition examination survey (Nhanes III), dal 25 al 57% della popolazione adulta degli Stati Uniti sarebbe affetta da un deficit di vario grado di vitamina D.

La causa principale di questo consistente deficit di vitamina D va ricercata in una riduzione della esposizione al sole, legata al modello di vita, che riduce il tempo trascorso all’aria aperta, e all’uso talvolta eccessivo di creme protettive dall’effetto dei raggi ultravioletti.

Che cos’è e cosa fa
La vitamina D, come accennato, è presente in due forme: la vitamina D2 (ergocalciferolo), derivata, nelle piante, dalla irradiazione di ultravioletti B (Uvb) e la vitamina D3 (colecalciferolo) sintetizzata nella epidermide umana, anch’essa per effetto della irradiazione Uvb. La vitamina D è quindi convertita nel fegato in 25(OH)D, il suo maggior metabolita circolante, utilizzato, come detto sopra, per il dosaggio plasmatico. La 25(OH)D subisce una seconda idrossilazione nel rene a 1,25(OH)D, la forma attiva, essenziale per la regolazione del metabolismo calcico. In realtà, la vitamina D, nella forma 1,25(OH)D, è un ormone che esercita molteplici effetti a vari livelli. Infatti, il recettore della vitamina D è presente in diversi tessuti, fra cui l’endotelio, le cellule muscolari lisce e il miocardio. La 1,25(OH)D circolante attraversa la membrana cellulare e raggiunge il nucleo dove si lega al suo recettore, insieme all’acido retinoico, fungendo da fattore di trascrizione nucleare. In tal modo, regola la funzione di oltre 200 geni inibendo la sintesi di renina, la crescita e la proliferazione delle cellule muscolari lisce e degli stessi miocardiociti. Si comprende perciò come il deficit di vitamina D possa determinare una sovraregolazione del sistema renina-angiotensina-aldosterone, l’ipertrofia del ventricolo sinistro e della tunica media della parete arteriosa e, sul piano clinico, facilitare la comparsa di ipertensione arteriosa e di complicanze cardiovascolari.

Fra gli effetti pleiotropici della vitamina D vanno annoverati anche quelli sul sistema immunitario. Alla vitamina D viene attribuita la capacità di ridurre la formazione di macrofagi dai monociti, la liberazione di citochine dai linfociti, la sintesi di immunoglobuline, l’attivazione dei linfociti T, la soppressione delle reazioni da ipersensibilità ritardata. Un deficit di vitamina D attiva di conseguenza i processi infiammatori e aumenta il rischio di malattie autoimmuni, tra cui il diabete di tipo 1. Il deficit di vitamina D produce anche una riduzione della secrezione e della sensibilità insulinica. Infine, parte degli effetti negativi del deficit di vitamina D sono mediati dall’iperparatiroidismo secondario provocato dal ridotto assorbimento intestinale del calcio e dalla conseguente riduzione della calcemia.

Se manca, fa male
Una conferma dei possibili effetti negativi di un deficit di vitamina D viene da una serie di studi epidemiologici e prospettici osservazionali. Dalla analisi dei dati della Third national health and nutrition examination survey emerge che una concentrazione plasmatica di 25(OH)D <20ng/ml si associa a una maggiore mortalità e a una più elevata percentuale di malattie cardiovascolari (angina, infarto del miocardio, ictus). Prove ulteriori vengono dal Framingham offspring study, in cui oltre 1700 soggetti indenni da malattie cardiovascolari sono stati seguiti per un periodo medio di 5,4 anni fino alla comparsa di un primo evento cardiovascolare. Si è osservato che concentrazioni di 25(OH)D <15ng/ml o <10 ng/ml si associavano rispettivamente a un aumento del rischio di eventi cardiovascolari del 62% e dell’80% particolarmente nei soggetti portatori, oltre che di diabete, anche di ipertensione arteriosa.

Più recentemente, in uno studio longitudinale danese (Joergensen e altri) condotto su circa 300 diabetici di tipo 2, seguiti in media per 15 anni, si è osservato che i soggetti con un grado elevato di deficit di vitamina D (appartenenti al decimo percentile e cioè ≤13.9 mmol/l) hanno presentato una incidenza di mortalità da ogni causa e da cause cardiovascolari superiore di quasi due volte rispetto a coloro che avevano una concentrazione più elevata di vitamina D. I risultati rimanevano inalterati anche dopo aggiustamento per il grado di controllo metabolico (A1c), durata del diabete, fattori classici di rischio cardiovascolare ed escrezione urinaria di albumina. Gli stessi autori hanno replicato lo studio in una coorte di 220 diabetici di tipo 1 seguiti per un periodo medio di 26 anni. Il dosaggio della vitamina D è stato eseguito entro i primi tre anni dalla diagnosi e poi ripetuto nel corso del follow-up. I soggetti considerati gravemente deficienti di vitamina D, in quanto appartenenti al decimo percentile (≤15.5 mmol/l), hanno mostrato di nuovo un aumento di due volte della mortalità da ogni causa, rispetto a chi ricadeva nei percentili superiori, indipendente dal controllo metabolico e dai fattori classici di rischio cardiovascolare.

Al deficit di vitamina D viene anche attribuita una maggiore incidenza di diabete di tipo 2. Nel Framingham offspring study i soggetti compresi nel terzile più alto di concentrazione plasmatica di vitamina D avevano una incidenza di diabete di tipo 2 inferiore del 40% rispetto a quelli del terzile più basso. Inoltre, quelli del terzile più alto presentavano livelli di glicemia a digiuno significativamente inferiori e una minore resistenza insulinica, evidenziata da valori più bassi di insulinemia e da un valore di Homa-R (indice di resistenza all’insulina) significativamente più basso del 12.7%.

CHI RISCHIA DI PIÙ

Vi sono alcune categorie maggiormente a rischio di sviluppare un deficit di vitamina D. In particolare: i soggetti di colore, la cui pelle è maggiormente impermeabile all’azione dei raggi ultravioletti a causa della pigmentazione cutanea; gli obesi, bambini e adulti, per l’accumulo della vitamina D, liposolubile, nel tessuto adiposo e la conseguente riduzione della quota circolante; i pazienti sottoposti a chirurgia bariatrica (bypass gastrico, diversione bilio-pancreatica eccetera) per la cura dell’obesità e del diabete di tipo 2, per il conseguente malassorbimento dei grassi; soggetti affetti da sarcoidosi o da altri granulomi; i pazienti in terapia con una serie di medicamenti (anticonvulsivanti, glicocorticoidi, antimicotici e farmaci usati per la terapia dell’Aids/Hiv) capaci di aumentare il catabolismo della vitamina D (nelle sue forme 25(OH)D e 1,25(OH)2D); donne in gravidanza e durante l’allattamento; persone anziane con ridotta capacità di sintesi cutanea della vitamina D.

I PASSI AVANTI DELLA RICERCA

D come prevenzione

Assumere supplementi della vitamina può contribuire a ridurre l’incidenza del diabete di tipo 2, grazie ai suoi effetti sulla secrezione di insulina e sulla insulinoresistenza. Una incoraggiante ricerca presentata al 71° Congresso dell’Associazione americana diabete

Alcuni studi prospettici hanno dimostrato che la supplementazione di vitamina D riduce l’incidenza di diabete di tipo 2. Nel Nurses’ Health Study le infermiere (la categoria campione scelta per lo studio) che avevano una introduzione giornaliera di almeno 800UI di vitamina D presentavano una incidenza di diabete del 33% inferiore a quella delle infermiere con una introduzione di meno di 200UI/die. Inoltre, la somministrazione di un supplemento di 700 UI/die di vitamina D e di calcio, per la durata di tre anni, nel quadro della Women’s Health Initiative, a donne con anomalia della glicemia a digiuno (Ifg) ha determinato una riduzione dello sviluppo di resistenza insulinica e di diabete di tipo 2, dello stesso ordine di grandezza di quello osservato nel Diabetes Prevention Program con le modificazioni dello stile di vita o la metformina.

Una conferma alla relazione esistente fra stato della vitamina D e incidenza del diabete viene anche da una analisi presentata, nel corso del 71° Congresso della American diabetes association a San Diego lo scorso giugno, da A.G. Pittas e collaboratori del Tuft New England Medical Center di Boston, Massachusetts (Usa). Gli autori hanno analizzato i dati del Diabetes Prevention Program (Dpp), esaminando, nel corso di diversi anni, l’incidenza di diabete in rapporto alla concentrazione plasmatica di vitamina D misurata a più riprese nel corso dello studio. I soggetti appartenenti al terzile più alto di vitamina D (30,1 ng/ml) hanno presentato un rischio inferiore del 26% di sviluppare diabete rispetto quelli del terzile inferiore (12,8 ng/ml). Lo studio ha anche dimostrato un rapporto dose-effetto fra concentrazione di vitamina D e incidenza di diabete perché alle concentrazioni più alte di vitamina D (50 ng/ml) corrispondeva una riduzione del rischio del 54%.

L’efficacia della vitamina D nel prevenire la comparsa di diabete può essere attribuita a un suo effetto sulla resistenza insulinica o sulla secrezione beta-cellulare di insulina.

La maggiore resistenza insulinica associata al deficit di vitamina D può essere spiegata ammettendo qualcuna o tutte queste ipotesi: 1) che la vitamina D agisca sul recettore dell’insulina o sui meccanismi post-recettoriali dell’azione insulinica; 2) ovvero che, regolando il flusso cellulare del calcio e la concentrazione di calcio nel citosol (il liquido intracellulare), migliori la captazione del glucosio da parte degli adipociti e delle cellule muscolari; 3) o che, in questi stessi sistemi cellulari, agendo sui recettori nucleari PPAR-alfa, la vitamina D modifichi il metabolismo degli acidi grassi; 4) o che esplichi un effetto favorevole sulla resistenza insulinica attraverso la soppressione del sistema renina-angiotensina-aldosterone.

Alla resistenza insulinica, nel diabete di tipo 2 come nella sindrome metabolica, si giunge attraverso una espansione del tessuto adiposo viscerale e la deposizione ectopica di grasso nel muscolo e nel fegato. Utilizzando la tomografia computerizzata, si è visto che esiste una forte correlazione negativa fra il livello plasmatico di vitamina D e il contenuto di grasso del tessuto muscolare, che aumenta di oltre il 23% nei soggetti carenti di vitamina D. Una ulteriore componente della resistenza insulinica è rappresentata dalla infiammazione, potenziata, nella carenza di vitamina D, dall’aumento della produzione linfocitaria di citochine.

Il diabete di tipo 2 insorge quando alla resistenza insulinica si associa un deficit beta-cellulare. Il deficit di vitamina D può intervenire anche a questo livello, sia accelerando i fenomeni apoptotici (cioè di distruzione) delle beta-cellule, sia, riducendo la liberazione di insulina stimolata dal glucosio, attraverso una riduzione del flusso di ioni calcio nel citosol.

Malgrado le numerose evidenze derivate dagli studi epidemiologici e osservazionali e da alcuni studi di intervento, e i suggestivi presupposti teorici, una recente meta-analisi di 51 studi, peraltro ritenuti di scarsa qualità, non avrebbe confermato l’esistenza di una associazione significativa fra supplementazione di vitamina D e riduzione della mortalità e del rischio cardiovascolare. Pertanto, in mancanza di uno studio di intervento adeguato, mirato alla prevenzione del diabete e delle complicanze cardiovascolari, nella linea guida stilata dalla Task force della Endocrine society per la valutazione, la terapia e la prevenzione del difetto di vitamina D, il dosaggio della 25(OH)D viene raccomandato nei soggetti a rischio di carenza, ma si esclude, al momento, l’utilità di uno screening generalizzato. Inoltre, laddove si riscontri una condizione di carenza, viene prevista la supplementazione di vitamina D finalizzata alla salute ossea, ma non ancora alla prevenzione delle malattie cardiovascolari e della mortalità.

E’ auspicabile, tuttavia, che dagli studi epidemiologici e osservazionali citati venga uno stimolo alla esecuzione di uno studio clinico di intervento che confermi o meno l’utilità di uno screening più esteso e di una supplemantazione mirata anche alla prevenzione del diabete e delle complicanze cardiovascolari.

PER SAPERNE DI PIÙ

Per chi fosse interessato ad approfondire l’argomento, indichiamo una bibliografia specifica sul tema trattato in queste pagine.

• Lee JK et al. – J Am Coll Card 2008; 52: 1949-56.

• Melamed ML et al. – Arch Int Med 2008; 168:1629-37.

• Kendrick J et al. – Atherosclerosis 2009; 205: 255-60.

• Wang TJ et al. – Circulation 2008; 117: 503-11.

• Joergensen C et al. – Diabetes Care 2010 ; 33: 2238-43.

• Joergensen C et al. – Diabetes Care 2011 ; 34: 1081-85.

• Liu E et al. – Am J Clin Nutr 2010 ; 95: 1627-33.

• Gilsanz V et al. – J Clin Endocrinol Metab 2010 ; 95: 1595-1601.

• Pittas AG et al. – Diabetes Care 2010 ; 33: 2021-23.

• de Boer IH et al. – Diabetes Care 2008 ; 31 : 701-07.

• Pittas AG et al. – American Diabetes Association, 71st Scientific Sessions, San Diego June 2011

• Elamin MB et al. – J Clin Endocrinol Metab 2011 ; 96 (7).

• Holick MF et al. – J Clin Endocrinol Metab 2011 ; 96 (7).

COSÌ SI MISURA IL DEFICIT DI “D”

25(OH)D serica (ng/ml) Stato della vitamina D

≤ 10 Grave carenza

10 – 20 Carenza

21 – 29 Carenza parziale

≥ 30 Sufficienza

> 150 Tossicità