Da Francoforte a Valencia per arrivare a Londra. La vita avventurosa di Valentina Paglia

Mi dice che la prima volta che è salita su un aereo, direzione Francoforte, ha pensato “a me, questo piace”.
Cosa sia racchiuso dentro la parola “questo” è il tema principale della vita di Valentina Paglia.

C’è, forse, lo stesso DNA di tutti coloro che sentono il movimento come qualcosa che ha a che fare con la loro stessa essenza.
In quel caso significava, giovanissima, lasciare tutto, trasferirsi a Francoforte senza conoscere una parola di tedesco – dettaglio non trascurabile – e lavorare in una gelateria per 11 ore al giorno.

“A me, questo piace” si sarà detta poi, quando da Francoforte si è spostata a Valencia e c’è rimasta per 6 anni. Faceva la cuoca e aveva una galleria-studio condivisa con altri artisti.

“A me, questo piace” si sarà ripetuta, quando poi ha sentito che il ciclo spagnolo si chiudeva e che, già nei suoi pensieri, se ne stava aprendo uno anglosassone.
London is calling, si sarà detta, e di nuovo si è buttata.

E la vita si è stravolta per l’ennesima volta e ormai sono sette anni.
Lavora come child care, si occupa, nello specifico, di bambini molto piccoli.
Ama anche il vintage, le ceramiche, e per non farsi mancare nulla si diletta con i mercatini.
Ah… vuole anche riprendere a studiare arte. Come darle torto?
Insomma io, questa ragazza, vorrei intervistarla di nuovo tra qualche anno per vedere dove si trova, cosa sta facendo, se l’andare ha avuto la meglio sullo stare o se lo stare per una volta ha fatto sentire le sue ragioni.

“Ma l’Italia ti manca?”, le chiedo; “ho momenti di profonda malinconia”, mi risponde.
“Qualche giorno fa, mi è arrivata un’ondata particolare, allora ho ascoltato Patti Pravo e Loredana Bertè”.
Giusto. Ottima cura.
E invece la cura per il diabete?
“Ora sono seguita dal centro Diabetologico dell’Homerton Hospital, e devo dire che la mia vita è completamente cambiata. Ho il diabete di tipo 1 da quando ho cinque anni e mezzo. Erano anni molto diversi. Non c’era l’informazione che c’è ora. Io ricordo che soffrivo per i dolci che mi erano negati. Una malattia invisibile perde valore agli occhi degli altri proprio perché non si vede. Ho odiato i medici tutta la vita. Non mi sono mai sentita ascoltata, ma sempre e solo giudicata.
A 11 anni ho chiesto di essere seguita da uno psicologo e mi è stato detto che lo chiedevo soltanto per emulare mia sorella.
Il mio medico curante di allora, mentre mi trovavo in un letto di ospedale mi ha detto ‘Se continui così fai una brutta fine’.

Nessuno mi chiedeva: come stai? Come ti senti?
Il medico che mi segue ora, mi dice ‘Io imparo ascoltando i pazienti’, una visione e un’attitudine profondamente diversa. Ci metto un’ora tutte le volte per arrivare in ospedale, ma non cambierei mai. Perché io ho bisogno di capire come funziona il mio corpo. Ho bisogno di poter fare qualsiasi domande e di ottenere delle risposte. Certamente ho avuto una vita caotica, molto particolare e intensa, ma questo non è il problema, il problema è la chiusura”.

“Come definiresti il diabete?”
“Lo definirei noioso. Il diabete è una noia mortale… con tutti questi numeri… E poi bisogna sempre riassestarsi. Trovo una routine per l’estate, e poi devo cambiare tutto con l’arrivo dell’inverno. I miei livelli di emoglobina ora sono perfetti, ma so che non mi posso adagiare e che possono cambiare in qualsiasi momento.
Ma un aspetto positivo lo devi trovare per forza e nel mio caso è la conoscenza del mio corpo, la ricerca di uno stile di vita sano e anche più etico nella scelta dei cibi.
E poi, non mi sono negata nulla. Ho fatto la vita che desideravo. Che sia una battaglia è certo, ma a tutti direi: non avere paura.
Un nodo cruciale è il tema dell’assistenza. Ho avuti problemi ai denti correlati al diabete e anche la spalla congelata. Le cure sono e sono state tutte a mio carico e credo che rispetto a questo, siano ancora molti i passi che si debbano fare”.

A cura di Patrizia Dall’Argine