La prima volta che ho contattato Mauro Sormani, spiegandogli in cosa consistesse l’intervista, gli ho espresso il mio stupore rispetto alle varie imprese di cui avevo letto e che lo vedevano protagonista. La sua risposta mi ha molto colpito. È stata una sorta di: “Sì, insomma…” in cui cercava, con umiltà, di ridimensionare quanto stessi affermando.
Questa umiltà l’ho intravista spesso in atleti di questo calibro, che, nel tempo, sembrano volgere lo sguardo a tutta quella sequela di vittorie come a qualcosa che – semplicemente – ha fatto parte del loro storico.
Più che il risultato, hanno urgenza di raccontarti come ci sono arrivati e anche perché.
Come mai non sono riusciti a smettere di allenarsi, cosa li ha portati a continuare, a stringere i denti, a lavorare sodo, a fallire e a riprovarci di nuovo. È a tutta questa parte che sono interessati.
E, se uno ci pensa, è anche la parte che si fa più fatica a visualizzare, della quale con più fatica si comprende l’entità e la portata. È molto più forte, a livello iconografico, una medaglia al collo, che un corpo sudato, sfiancato da infinite ore su una pista di sci di fondo. Chissà come, ma spesso ci dimentichiamo che la prima immagine non è possibile senza la seconda, ma la seconda è possibile anche senza la prima. Ovvero, che la passione vive di sé stessa. La passione non ha bisogno di essere riconosciuta o avvalorata da altri. È qualcosa di intimo, personale, arricchente in ogni caso. E non ha nulla a che spartire con le graduatorie.
E Mauro ne è un esempio.
Infatti, abbandonare l’agonismo non ha significato abbandonare lo sport, l’allenamento e soprattutto la fatica che ne consegue, verso la quale si sperimenta anche dopo anni, presumo, un sodalizio di rigore e piacere.
L’esordio del diabete è avvenuto allo scoccare dei suoi 9 anni, ora ne ha 44.
Trentacinque anni fa di diabete si parlava poco e si sapeva altrettanto poco.
“Si faceva l’insulina 2 volte al giorno… Col senno di poi, credo che sia stato lo sport a salvarmi e a mantenere una glicemia più o meno corretta. A 10 anni ai campi scuola organizzati a Como mi hanno insegnato a farmi l’insulina da solo. Dopodiché ho avuto la fortuna di incontrare un diabetologo che mi ha detto: ‘Ricordati che è l’insulina che deve adeguarsi alla persona, non il contrario’, e da lì ho capito che potevo continuare con lo sport, con le giuste accortezze”.
Riprende in mano lo sci di fondo, sua grande passione. Si allena per tre, quattro mesi costantemente e poi, quando non ci sono più le possibilità, per ovvie condizioni climatiche, si dedica alla corsa e alla bicicletta.
Si mantiene attivo, sempre: “Il grande problema delle gare era lo stress che mi provocava sbalzi di glicemia, dovuti alle scariche di adrenalina. Non volevo perdere nemmeno un secondo, per cui a volte non mi fermavo nemmeno per correggerla. Ho sempre lavorato sodo cercando di stare coi piedi per terra. Se l’aspettativa è troppo alta, lo è anche la delusione. Se ti mantieni aderente al vero, riesci a capire cosa puoi ottenere e a cosa puoi ambire”.
E le cose che ha ottenuto Mauro sono, senza esagerare, eccezionali. Attraverso l’incontro con ANIAD (Associazione Nazionale Italiana Atleti Diabetici), si aprono per Mauro molte possibilità e competizioni, alle quali partecipa con entusiasmo. In seguito partecipa al progetto ‘DISK’ (Diabetici Italiani sul Kilimanjaro), dove può confrontarsi per la prima volta con le difficoltà dell’alta quota.
A questa spedizione segue nel 2002, la ‘Ascensia Cho-Oyu 2002’, sull’Himalaya, dove raggiunge i 7.560m, senza ossigeno e senza portatori e, nel 2005, l’ ‘ISLET’ (International Snow Leopard Type 1) nell’altopiano del Pamir, sul monte Peak Lenin di 7.134m, dove sale e scende con gli sci dalla quota di 6.800m.
Nel 2006, insieme alla sorella, parte per la Groenlandia con l’obiettivo di concludere l’Arctic Circle Race, una competizione di sci di fondo di 160 km, suddivisa in tre tappe consecutive. Si piazza al terzo posto della classifica generale.
Tra le altre cose, Mauro si è occupato della preparazione di tre giovani atleti nella disciplina dello ski roll, portandoli alla vittoria del campionato mondiale a squadre nella categoria juniores e assumendo in seguito il ruolo di tecnico nella squadra nazionale.
In relazione a questa esperienza afferma: “A volte alcuni ragazzi mi dicono: ‘Se entro un paio d’anni non ottengo i risultati prefissati, lascerò questo sport’. Io rispondo: ‘Non si ragiona così in termini sportivi. Si ragiona per micro risultati quotidiani. Non si possono sperare miglioramenti giganteschi dalla sera alla mattina. Bisogna perseverare. Lo sport chiede dedizione. È la passione che ti spinge a continuare, non il successo”
Mauro ora si dedica all’ arrampicata. Spesso va con sua moglie. Quando il tempo è poco e la stagione non lo permette si allena in casa, dove ha allestito una parete.
Mi dice che i risultati che non ha ottenuto nella sua carriera sportiva non sono da imputare al diabete. Mi dice che è arrivato dove poteva, indipendentemente da quello.
È molto in linea con il suo modo di raccontarsi, con quello che di lui mi ha mostrato, in questo tempo telefonico. Un uomo che si è andato a prendere quello che voleva e che non ha chiesto sconti di nessun tipo, a nessuno. Che si è messo alla prova, con tutto ciò che implica mettersi alla prova, ovvero autorizzarsi, prima di tutto, anche di fallire. E che, per questo, non solo con i suoi limiti ci ha fatto pace, ma li considera serenamente parte del tutto – del suo tutto – e li osserva, e ci dialoga, e li accetta.
E questo, francamente, io lo trovo bellissimo.
A cura di Patrizia Dall’Argine