C’è questo libro di Raymond Carver che si intitola “Di cosa parliamo quando parliamo d’amore”.
Per chi si occupa di definire quando un autore diventa, a tutti gli effetti, autore di culto – e si dovrebbe, a parer mio, inventare un nome e una qualifica precisa per costoro – questo è il libro attraverso il quale Carver lo è diventato.
Se uno si sofferma solo sul titolo, verrebbe da dire che è piuttosto pretenzioso pensare di spiegare di cosa parliamo, quando parliamo d’amore. E infatti, Carver non ne ha la benché minima intenzione. Come solo i più saggi sanno fare, abbraccia con tutte le sue forze la categoria dell’indicibile, lasciandola tale e lasciandola stare. Grazie Raymond.
Non vuole spiegare nulla; vuole, piuttosto, farci vedere. Ci fa vedere piccoli gesti raccolti dal mazzo di banalità quotidiane, che costruiscono la vita un giorno dopo l’altro. Situazioni apparentemente di stallo, bucate proprio da quelle minuscole azioni.
Ho pensato a Carver e al suo libro dopo aver intervistato Irene.
Ho pensato al suo titolo, per essere più precisi. Al suo titolo declinato in un’altra categoria dell’indicibile, dentro la quale lei, fragile, generosa e bellissima, mi ha condotto.
Di cosa parliamo quando parliamo della malattia di un figlio.
Che equivale a dire, di cosa parliamo quando parliamo di dolore. Ai massimi livelli, perché non coinvolge noi stessi, ma chi amiamo di più, sopra ogni altra cosa. Nello specifico, colui o colei che, se esistesse una giustizia di ordine meramente anagrafico – in quanto figlio e figlia, e quindi più giovane – non dovrebbe nemmeno essere sfiorato da una patologia.
“Perché lui?”, è la prima domanda. “Perché lui e non io?”, la seconda.
L’ordine, a dire il vero, è variabile. Il contenuto, invece, no.
Allora Irene un pomeriggio me l’ha fatto vedere, come si mostra una ferita che tarda a cicatrizzarsi e che è tua, indiscutibilmente tua, ma che trascende la dimensione privata, perché tutti a questo mondo, in un modo o nell’altro, ci facciamo male.
Mi ha fatto vedere la vita con i suoi figli, gemelli, Jaume e Miquel, nati quando aveva 22 anni. Voluti, fortemente voluti. Amati, fortemente amati.
Fatti vivere nella natura, in un bosco nei pressi di Siena, con la fatica della campagna, della stufa a legna, ma con quella libertà di prati e tramonti che ti lasciano secco, la sera, con la bocca aperta e il cuore spalancato.
Poi mi ha fatto vedere il suo 25 gennaio 2016.
Il ricovero di suo figlio Jaume. E me l’ha fatto vedere così: “Non mi perdonerò mai di non averlo riconosciuto subito [il diabete]. Nessuno mi dava credito, perché è difficile pensare che un bambino si possa ammalare. Ma c’era qualcosa nei suoi occhi, che io vedevo. Qualcosa nel suo sguardo. Non ho dato abbastanza credito al mio intuito. Quando siamo arrivati in ospedale, alle 7:30 di sera aveva 825 di glicemia. Si è addormentato e io lo guardavo e pensavo: “io ti curerò, io ti salverò. Troverò il modo”. Ero preda di un delirio di onnipotenza. Non potevo pensare alle parole “per sempre” e “inguaribile”. “Per sempre” riguarda l’infinito. Ed è qualcosa di inumano, e infatti l’uomo lo sublima con l’idea di Dio.
Ricordo la disperazione e ricordo allo stesso modo le parole di mio figlio quando si è svegliato: “Mamma, stai tranquilla. Sto bene. Ce la facciamo”.
Ma da lì in avanti vieni scaraventato in un mondo di cui non conosci le parole, la grammatica, le regole. Jaume mi sembrava un bambino di vetro. Adesso si rompe, mi dicevo. Il cibo non era più una gioia, ma una terapia. Il fatto di essere seguiti da un ospedale di vecchio stampo non ha aiutato di certo. Mi sentivo incapace, terrorizzata. Ero una mamma separata, senza una famiglia con cui confrontarmi. La gestione del diabete da parte di un solo genitore è molto complessa.
Il diabete di tipo 1 è una malattia invadente, che non molla mai, che non dà mai tregua. Le devi un contributo costante in termini di attenzione. Non ti puoi distrarre, non la puoi dimenticare. È sempre lì. Mi rendo conto che era diventato il mio primo pensiero. Quando i miei figli tornavano da scuola, prima di tutto chiedevo della glicemia. Che la giornata fosse andata bene o male passava in secondo piano”.
E infine Irene mi fa vedere la loro vita di adesso. Jaume e Miquel hanno 15 anni. Liceo classico il primo, liceo linguistico il secondo.
Irene lavora molto e ha un blog che consiglio di leggere (www.a-me-mi.com). Spesso non dorme la notte, perché quando suona l’allarme del micro è lei a svegliarsi per correggere la glicemia. Il suo compagno è medico. Abitano a Milano.
Ha incontrato molti genitori che vivono la sua stessa situazione. Persone con le quali, forse, in altri contesti, non avrebbe interagito. Diversissimi, ma accomunati da una cosa così grande. “La malattia è una livella, unisce mondi apparentemente opposti. Stare vicini, guardarsi negli occhi mi ha fatto bene”.
Lei ha fatto quel che poteva, mi dice. E non le sembra abbastanza. Doveva essere più forte, piangere meno, infondere sicurezza, reggere in maniera più stoica alla verità. A questa verità che le è scoppiata tra le mani, di cui mi mostra la ferita che tarda a cicatrizzarsi. Sta meglio, certo, è più centrata. Sa e vede che c’è una felicità, una normalità possibile, ma azzarda che non si cicatrizzerà mai del tutto.
Io le auguro che questo “mai” – proprio come quel “sempre” di cui lei purtroppo ha dovuto tastare le dimensioni – si rimpicciolisca, un giorno, mostrando i suoi umani – quindi sopportabili – confini.
Ciao Irene, ci siamo conosciute il tempo di una telefonata, quindi scusami in anticipo per il pensiero non richiesto che sto per esprimere: se hai fatto tutto quello che potevi, hai fatto certamente abbastanza.
A cura di Patrizia Dall’Argine