Negli ultimi decenni la medicina si sta spostando sempre più da un modello di cura disease-centered, ovvero centrato sulla malattia in senso biomedico, a un modello patient-centered, centrato sul paziente.
La comunicazione durante le visite mediche era tradizionalmente guidata dal medico e finalizzata a raccogliere informazioni utili per la diagnosi e la terapia; nell’approccio centrato sul paziente ci si avvicina invece a modalità più partecipative, in cui non avviene solo la condivisione dei sintomi ma anche degli aspetti psico-sociali della malattia e le scelte terapeutiche vengono concordate e condivise con il paziente. Secondo la medicina centrata sul paziente il medico deve tenere conto delle idee, delle preoccupazioni, delle aspettative e di quella che viene definita “l’agenda del paziente”.
Numerosi studi hanno dimostrato che la qualità della comunicazione medico-paziente fa la differenza, in maniera diretta e indiretta, rispetto ai risultati clinici. Nel caso del diabete di tipo 2, in cui lo stile di vita del paziente è la principale sorgente di cura, la centralità del paziente non è soltanto una vuota formula retorica: o il paziente è al centro del team o la cura non esiste.
Diabete di tipo 2: osservando le consultazioni lungo il patient journey
Quali sono le difficoltà e le barriere comunicative che ancora ci tengono distanti da un modello di medicina centrata sul paziente? In ambito diabetologico, l’audioregistrazione o la videoregistrazione delle consultazioni è uno degli strumenti utilizzato dalla ricerca qualitativa per analizzarle in termini di efficacia comunicativa, per vedere e ascoltare che cosa succede concretamente nell’interazione medico-paziente e quanto ci si accosti a un modello collaborativo e centrato sul paziente.
È il caso anche di un recente studio neozelandese che ha seguito 32 pazienti per 6 mesi a partire dalla diagnosi di diabete di tipo 2, videoregistrando tutte le visite con il team curante. Le interazioni sono poi state analizzate, facendo riferimento a metodologie della linguistica e dell’antropologia, utilizzando l’analisi dell’interazione e l’etnografia. L’aspetto più innovativo di questo studio è dato dall’aver documentato tutto il percorso del paziente (Patient Journey) per un periodo di tempo relativamente lungo, seguendo le consultazioni con i diversi operatori del team curante.
Il primo dato interessante emerso riguarda la prima consultazione: nella maggior parte delle registrazioni è l’urgenza di raccogliere informazioni di tipo biomedico (i fatti, le analisi, gli esami) e di veicolare informazioni sulla malattia da parte del curante, dove una modalità da “checklist” ha la meglio.
Quale potrebbe essere una strada alternativa? Per esempio quella imboccata da questo medico: “In primo luogo vorrei sapere brevemente che cosa sa o cosa ha capito del diabete fino a ora. Mi piacerebbe anche che mi raccontasse come si sente e come sta reagendo alla diagnosi”.
Con questo tipo di domanda il medico esce dal protocollo, per dedicare spazio all’esplorazione delle conoscenze pregresse del paziente e alle sue emozioni.
Proprio per quanto riguarda quello che i pazienti conoscono del diabete, i curanti sembrano dare per scontato che il paziente ne sappia poco, mentre i pazienti spesso conoscono già il diabete di tipo 2 a causa della presenza di altri casi in famiglia (e magari si aspettavano prima o poi che si sarebbe presentato) o a causa di sintomi che l’hanno preannunciata. In ogni caso raramente queste conoscenze pregresse vengono utilizzate per valutare i bisogni del paziente.
Nel corso del percorso di visite spesso al paziente vengono ripetute le stesse informazioni, perfino sotto forma di opuscoli offerti dai diversi professionisti senza accertarsi che i pazienti li abbiano già ricevuti in precedenza. Benché generalmente, tra i professionisti sanitari di questo studio, ci sia un’attenzione per il contesto socio-culturale e un riconoscimento delle difficoltà a cui il paziente può andare incontro, tuttavia quando si tratta di dare consigli, ci si concentra in maniera un po’ ripetitiva e sorda sul consiglio, piuttosto che ascoltare la narrazione del paziente che descrive proprio quelle difficoltà dettate dallo specifico contesto sociale.
Nel percorso del paziente ci sono spesso momenti in cui vengono esplorati gli aspetti psicologici ed emotivi dell’esperienza di malattia del paziente, ma quello che emerge dalle registrazioni è che spesso questi spazi sono interrotti o dirottati dal curante per l’urgenza di affrontare tutti i punti critici previsti dal protocollo.
Prendete per esempio questo scambio:
Paziente: Si riesce a dare un senso se se ne parla con gli altri
Infermiera: Quindi ne parla con gli amici?
Paziente: Parlo con chiunque sia abbastanza stupido da starmi a sentire
Infermiera: Sì, penso che noi donne funzioniamo così
Paziente: Penso che sia il modo in cui affrontiamo le cose…
Infermiera: La salute dei denti è un’altra area…
Il momento di confidenza e di condivisione viene interrotto, per non dimenticare un’altra area di interesse per la salute della paziente, ma un’occasione è andata perduta.
Conclusioni
Il medico ha una sua agenda, la lista delle attività/priorità che in quanto medico curante, sulla base dei protocolli, delle linee guida, delle conoscenze scientifiche e della sua esperienza, ritiene indispensabile che vengano svolte: valutare le analisi del sangue il controllo glicemico, portare il paziente a ridurre il peso, aumentare l’attività fisica, smettere di fumare…
Ma anche il paziente ha una sua agenda rispetto all’esperienza di malattia (illness), che non necessariamente coincide con quella del medico. La medicina centrata sul paziente cerca di integrare le due agende, ma non può limitarsi a farlo in maniera puramente formale, aggiungendo una voce alla checklist.
Serve un’attenzione costante e flessibile da parte del curante alle parole del paziente, serve la capacità di elicitare storie attraverso domande aperte, di ascoltare con attenzione e con interessi, rispettando i tempi del paziente e imparando a comprendere il suo punto di vista. Ma una buona formazione del personale sulla comunicazione medico-paziente può ancora essere insufficiente.
Se il paziente è al centro, è al centro di un team di curanti che deve essere un vero team, capace di condividere le informazioni. E infine anche la “scatola” in cui i professionisti della cura e il paziente sono inseriti deve essere strutturata in modo da poter garantire un’effettiva pratica centrata sul paziente: gli strumenti informativi (opuscoli, ecc) e il Patient Journey devono essere progettati sulla base delle esigenze del paziente. E il tempo per l’ascolto – ascolto che non sia orientato direttamente a un task, ma anche fine a se stesso, tempo di cura – resta sempre una risorsa indispensabile.
A cura di Francesca Memini
BIBLIOGRAFIA
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A Longitudinal Study of Interactions Between Health Professionals and People With Newly Diagnosed Diabetes. Dowell A, Stubbe M, Macdonald L, Tester R, Gray L, Vernall S, Kenealy T, Sheridan N, Docherty B, Hall DA, Raphael D, Dew K.