Il diabete di tipo 2 è una condizione strettamente dipendente dallo stile di vita, in particolare dall’alimentazione e all’attività fisica. Tutte le raccomandazioni e le linee guida sottolineano l’importanza di mantenere un’attività fisica costante, ma a partire dalla constatazione di un fatto biologico certo (la correlazione tra attività fisica e controllo dei livelli di glucosio), l’attività fisica può essere raccontata in molti modi diversi: il dato scientifico viene inserito in una cornice narrativa che abbia senso e coerenza con la propria identità, le proprie credenze e i propri valori.
L’attività fisica è spesso descritta come una vera e propria “medicina”, all’interno di una narrazione salutista che utilizza il gergo medico in maniera metaforica (avrete sicuramente sentito parlare di “epidemia di inattività fisica”) e che tende a medicalizzare l’esercizio fisico e lo sport.
L’esercizio fisico fa bene alla salute, questo è fuori di dubbio, ma chi lo definisce una “medicina” esaspera un significato morale e normativo, inserendolo in un sistema di valori che viene definito “salutismo”.
In questo sistema di valori, ciascun individuo è l’unico responsabile della sua salute (“Se ti viene il diabete è colpa tua perché non hai seguito un’alimentazione corretta”), sottovalutando le dimensioni sociali e sistemiche della salute e della malattia: per esempio le differenze nell’accesso alle cure, al cibo sano o la disponibilità di tempo per la cura di sé.
La medicalizzazione dell’esercizio fisico è nel mondo occidentale una narrazione dominante, ciò non significa che sia anche determinante, al contrario stimola diverse prese di posizione da parte delle singole persone.
Ascoltando i racconti delle persone con diabete di tipo 2 possiamo cogliere come il significato e il ruolo dell’attività fisica può essere inserito nella propria storia di vita.
Le storie di malattia rappresentano il tentativo di dare senso e comunicare l’esperienza personale, singola, irripetibile e vissuta nel corpo. Per fare ciò si attinge a un “campionario” di storie condivise culturalmente, una specie di grande biblioteca all’interno della quale, in maniera spesso inconsapevole, si scelgono le storie che più si adattano alla propria esperienza.
In questa biblioteca si trova anche la narrazione dell’attività fisica come medicina: come si orientano le persone con diabete di tipo 2 rispetto a questa narrazione?
Un gruppo di ricercatori olandesi ha esplorato i racconti di 18 persone per cercare di comprendere questo rapporto.
Si tratta di un tipico studio di ricerca narrativa (narrative researcho narrative inquiry), un approccio della ricerca qualitativa utilizzato nelle scienze sociali per esplorare i significati che le persone attribuiscono a particolari esperienze attraverso il modo in cui li raccontano.
Questo tipo di studio non ha la pretesa di raggiungere verità oggettive o generalizzabili, quanto di cogliere uno spaccato di una realtà che è soggettiva e contestuale. Le storie infatti rappresentano il punto di vista del soggetto che racconta la sua esperienza, un’interpretazione della realtà che viene costruita attraverso l’interazione sociale (si racconta sempre a qualcuno) e anche attraverso l’interazione con le narrazioni dominanti (si racconta sempre all’interno di una biblioteca di storie pre-esistenti).
“Quali storie raccontano le persone con diabete di tipo 2 sull’attività fisica e lo sport?”, si sono domandati i nostri studiosi olandesi.
Hanno intervistato 18 persone con diabete di tipo 2, le interviste sono state trascritte e inviate agli intervistati per loro verifica. Infine le storie raccolte sono state analizzate secondo una metodologia specifica: “Nel nostro approccio narrativo, abbiamo studiato ogni storia nel suo complesso, comprese le sue tensioni, complessità e contraddizioni (Riessman, 2008). Abbiamo prestato attenzione alla struttura della trama esaminando il personaggio, gli atti, il contesto e gli obiettivi (Murray and Sools, 2015), con particolare attenzione all’integrazione di pratiche sportive / attività fisiche ed esperienze incarnate (embodiment). Inoltre, eravamo attenti alle emozioni, al fraseggio, all’orientamento temporale e alla co-costruzione della storia (Riessman, 2008; Sparkes and Smith, 2005).”
Quello che emerge da questa analisi è la grande varietà di significati attribuiti allo sport e all’attività fisica.
Per qualcuno l’attività fisica è stato lo strumento per ottenere il controllo su un corpo che a causa del diabete si era dimostrato “indisciplinato”; per altri il diabete ha cambiato radicalmente la propria idea di sport perché la malattia ha interferito con le precedenti abilità fisiche: uno dei racconti rivela come da un significato di sport come divertimento con una importante valenza sociale (il narratore apparteneva a un club di ciclisti), l’esercizio fisico ha assunto un significato più medico.
Per altri l’esercizio fisico è vissuto come una nuova necessità. E ancora: qualcosa di cui sentirsi colpevoli o infastiditi, qualcosa che non è in grado di mantenere la sua promessa di controllo glicemico. Per qualcuno l’attività fisica è percepita come non necessaria, inutile.
Tutte le storie fanno in qualche modo i conti con la nozione normativa di esercizio fisico come medicina, a conferma che questa narrazione è diffusa tra le persone con il diabete di tipo 2.
Tuttavia l’analisi riesce a mettere in evidenza come questa narrazione possa essere interpretata in maniera creativa con meccanismi di negoziazione, resistenza, ambivalenza e zelo, oppure perfino sfidata (per esempio nel racconto che nega l’utilità dell’attività fisica).
Queste interpretazioni sono l’esito dell’adattamento tra la narrazione dominante e la propria esperienza incarnata. Alcune narrazioni si adattano meglio alla propria esperienza: per esempio la signora che è riuscita a integrare la pratica costante dell’attività fisica nella sua vita quotidiana e a ottenere un perfetto controllo glicemico, si trova perfettamente a suo agio con la narrazione di attività fisica come medicina. Per altri che hanno avuto difficoltà, nell’integrare la pratica o nel raggiungere i risultati nonostante gli sforzi, hanno ritenuto questa narrazione meno adatta a descrivere la propria esperienza, causa di frustrazione o di sensi di colpa.
Qual è l’utilità di questo studio? Per migliorare la relazione tra pazienti e operatori sanitari è importante rendersi conto che i concetti medici non sono affatto neutri, nonostante siano fondati su dati evidence-based. Spesso la normatività dei concetti, la loro accezione morale, resta sullo sfondo: un valore dato per scontato, quello dello stile di vita sano come responsabilità personale, non è affatto scontato. Uno dei narratori dello studio spiega come per lui la malattia sia un evento naturale della vita e quindi la salute per lui non rappresenta affatto un imperativo morale.
Ascoltare e analizzare le storie ci permette di far emergere dallo sfondo i significati impliciti che possono “sabotare” la relazione medico-paziente e di conseguenza l’esito terapeutico.
Le persone con diabete lottano per trovare un equilibrio di vita che sia il loro equilibrio, basato sulla loro visione del mondo e sulla loro esperienza con la malattia.
La Medicina Narrativa, fondata sull’esercizio della competenza narrativa, sull’ascolto e la comprensione delle storie, può rappresentare lo strumento dell’operatore sanitario per accedere al mondo vissuto del paziente e costruire insieme a lui una storia di cura su misura.
L’operatore sanitario assume un atteggiamento simile a quello del ricercatore qualitativo, che stimola il racconto, ascolta attentamente e verifica di aver compreso e riflette sui propri pregiudizi. Infine si lascia coinvolgere nel processo di co-costruzione di una nuova, buona storia di cura.
A cura di Francesca Memini
Bibliografia
Stuij M, Elling A, Abma T. Negotiating exercise as medicine: Narratives from people with type 2 diabetes. Health (London). 2019 May 23:1363459319851545. doi: 10.1177/1363459319851545. https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/31117826