Camminare insieme fa bene alla salute e alle relazioni

Una regolare attività fisica è parte integrante della gestione del diabete di tipo II, ma introdurre un cambiamento nel proprio stile di vita non è affatto un gioco da ragazzi. 

I professionisti sanitari, che conoscono bene le raccomandazioni e le evidenze scientifiche in merito, durante le visite possono per lo più fornire consigli e informazioni, ma non si tratta di strumenti sufficienti per supportare i pazienti ad adottare uno stile di vita più attivo. È come se le informazioni mediche rimanessero nello studio medico, senza entrare a far parte del mondo del paziente; il professionista sanitario e la persona con diabete sono distanti e non riescono, in un certo senso, a fare gioco di squadra. Che cosa succede se i due mondi provano a incontrarsi?

In Olanda la Bas van de Goor Foundation ha promosso la National Diabetes Challenge, un programma di gruppi di cammino di 20 settimane guidati da un operatore sanitario, per arrivare pronti alla vera e propria sfida finale, un evento nazionale che prevede 4 giorni di cammino. 
Un gruppo di ricercatori ha seguito due di questi gruppi, guidati da un’infermiera di famiglia e da un’infermiera di reparto, con uno studio etnografico: il ricercatore principale si è allenato insieme ai gruppi, osservando e dialogando con le infermiere e i pazienti, raccogliendo note sul campo e riflessioni che sono poi state analizzate e discusse con il gruppo di ricerca e pubblicate in uno studio.

L’iniziativa dei gruppi di cammino ha alcune caratteristiche molto interessanti: innanzitutto si mescolano i contesti e viene meno “la distinzione tra sistema e mondo della vita, la distinzione tra una logica scientifica, burocratica e impersonale da un lato e una logica basata su valori e su relazioni faccia a faccia, incorporate narrativamente dall’altro”, come spiegano gli autori dello studio. Le infermiere non si limitano a fornire informazioni in un contesto clinico-assistenziali ma partecipano ai gruppi di cammino insieme ai loro pazienti. 

Si tratta, inoltre, di una attività di cura non individuale, ma di gruppo. Infine è un’iniziativa che parte dal basso: non ci sono protocolli scientifici da seguire, la fondazione fornisce soltanto materiali utili per organizzare e promuovere i gruppi (oltre all’organizzazione dell’evento nazionale finale), e le infermiere che aderiscono spontaneamente all’iniziativa la gestiscono autonomamente. 

Dall’esperienza descritta sono emersi numerosi effetti positivi. Il passaggio fondamentale è quello da una cura centrata “sul paziente” a una cura centrata sulla “persona”. Svolgere insieme attività fisica ha permesso agli infermieri di entrare in contatto con il mondo della vita dei pazienti, di conoscere le difficoltà che incontrano.

Inoltre, la condivisione dell’esperienza è diventata una “storia comune” che ha permesso di sviluppare un impegno reciproco tra paziente e infermiere, e una forma di responsabilità condivisa all’interno del gruppo. Alcuni pazienti si sono presi cura del progetto, aiutando l’infermiera a tracciare i percorsi o a distribuire bottiglie d’acqua. Inoltre, hanno condiviso esperienze e suggerimenti tra loro, ad esempio, su cosa fare con livelli elevati di zucchero nel sangue, come gestire le esigenze assicurative e dove acquistare buone scarpe da passeggio. Questa “assistenza condivisa” ha preso anche la forma di disciplina sociale: i pazienti chiedevano agli altri i motivi delle loro assenze e verificavano che non fossero intervenuti problemi di salute. In uno dei gruppi, questa disciplina sociale è proseguita dopo il progetto: hanno creato un gruppo whatsapp e proseguito con i gruppi di cammino anche dopo la fine del progetto e senza il supporto dell’infermiera. Il cambiamento è entrato concretamente e piacevolmente nella loro vita!

Dopo lo svolgimento dei gruppi anche la comunicazione “istituzionale” è migliorata, le infermiere si sono mostrate più attente a tematiche che prima sottovalutavano e i pazienti più disponibili al confronto.

Questo diverso approccio sembra aiutare gli infermieri ad arricchire le loro conoscenze, generalmente basate sulle evidenze scientifiche dei benefici dell’attività fisica – la forma di sapere privilegiata nel sistema –  con le conoscenze concrete e locali dal mondo della vita dei loro pazienti. 

Ci sono state anche alcune difficoltà e alcuni dilemmi su cui vale la pena riflettere, per valutare il modo migliore di implementare questo tipo di integrazione tra mondi.
Le infermiere hanno avuto il permesso dalla loro organizzazione di dedicare una parte del loro tempo a questa attività, ma il tempo per la gestione organizzativa (trovare i percorsi, fare i recall, contattare le persone che abbandonano il programma) si è dimostrato molto maggiore rispetto a quanto previsto e le infermiere hanno utilizzato il loro tempo libero per svolgere queste attività.
Inoltre spesso si sono trovate sole e senza nessun supporto, quando serviva loro una sostituzione. In particolare è risultato fallimentare il tentativo di inserire anche i medici nei gruppi di cammino.

Per quanto riguarda la relazione con i pazienti anche qui non è filato tutto liscio: molti hanno abbandonato i gruppi di cammino; le infermiere hanno faticato ad integrare i bisogni dei singoli con quelli del gruppo e gestire le diverse “velocità” dei partecipanti ai gruppi, individuando strategie non sempre efficaci.

Mescolare i due mondi ha portato le infermiere a condividere alcuni aspetti della loro vita privata, per una persino i suoi obiettivi di salute (perdere qualche chilo con l’attività fisica). La difficoltà e il dilemma personale è quello di gestire i “confini”: fino a che punto raccontare di sé, come porre un limite al tempo messo a disposizione dei pazienti e come “entrare e uscire” dalla modalità paziente-infermiera, sono tutti interrogativi che rimangono aperti e su cui riflettere.

A cura di Francesca Memini


Bibliografia

Stuij M, Elling‐Machartzki A, Abma TA. Stepping outside the consultation room. On nurse–patient relationships and nursing responsibilities during a type 2 diabetes walking project. J Adv Nurs. 2019;75:1943–1952.