Vorrei essere sicura di restituire nella maniera più precisa possibile le parole che ho ascoltato, qualche giorno fa, attraverso il vivavoce del mio telefonino.
Vorrei che ora, scritte in questo breve testo, sapessero illuminare come hanno illuminato me.
Si dice che alcune parole siano in grado di ferire come coltelli. Altre, invece, hanno il dono di curare.
Le parole del dottor Valerio Miselli appartengono a quest’ultima categoria.
Da un po’ di tempo sentivo l’esigenza di confrontarmi con un medico, un diabetologo; perché moltissime delle persone intervistate in questi anni hanno raccontato come fosse stata determinante questa figura, entrata improvvisamente nelle loro vite, con il difficilissimo compito di metterli di fronte al diabete, a quello che era accaduto e a quello che sarebbe accaduto più avanti.
“Quando parliamo di malattie croniche, dobbiamo pensare che la reazione dipende da moltissimi fattori: vissuto personale, stratificazioni culturali e sociali. Una cosa è certa, si tratta di un trauma per tutti. Se non da subito – se non al momento dell’esordio – sappiamo che, prima o poi, dobbiamo aspettarci un contraccolpo. Questo, perché una malattia cronica è una rottura definitiva con la falsa idea di eternità che tutti sviluppiamo da sempre”.
Ecco il primo trauma, la realizzazione del limite umano, di un essere che come tutti gli altri vive e necessariamente muore. Tanto fisiologico e naturale quanto inconcepibile, inaffrontabile. Nessuno di noi ha voglia di stare di fronte al proprio limite. È inoltre sconvolgente incappare in qualcosa che non può essere curato con un ciclo di antibiotici o con una terapia qualsiasi a tempo determinato. Qui c’è da ricostruire una nuova normalità che includa il diabete quotidianamente.
“Nei primissimi momenti, il grande rischio è che se ne occupino molte persone. Più le voci sono discordanti, più si entra in confusione. Un altro errore grave è riempire la persona di informazioni subito dopo l’esordio. Quello è un momento delicatissimo. Nessuno in quel momento è ricettivo, tutti sono spaventati. Il medico deve rassicurare: ‘non preoccuparti, non sei solo, starai meglio’. È necessario rinviare la parte informativa a momenti di maggiore lucidità.”
Mi racconta che un passo ulteriore, molto importante, anche con gli adolescenti, è stata la consegna di un “Survivor kit”, con tutto il necessario per gestire il diabete nel tempo limitato di 5 giorni. Questo kit veniva consegnato in modo che la persona iniziasse a prendersi cura di sé stessa per un periodo breve, e ad avere dimestichezza con la terapia.
“Per 35 anni ho organizzato campi estivi con bambini e adolescenti. Gruppi di 15/20 persone. Sono passate un paio di generazioni. In questi campi si faceva sport, ci si confrontava. Una ipoglicemia vissuta all’interno di un gruppo toglie la paura dell’ipoglicemia stessa. Se sei inserito in un sistema di learning experience ne gioverà la tua autostima, la capacità di leggere il tuo corpo e di risolvere una situazione di questo tipo”, continua il dott. Miselli.
“Un solo evento di ipoglicemia grave può influenzare la gestione del diabete per anni. Chi ne ha molta paura rifiuta l’idea di mantenere una glicemia normale, preferisce tenerla alta, per non rischiare. C’è un fattore umano che deve sempre essere considerato. Purtroppo nemmeno l’università mi ha preparato a questo. Noi medici siamo formati per risolvere problemi nell’immediato, attraverso un approccio prescrittivo che spesso non tiene conto della persona che si ha davanti”.
Questo si impara dopo con l’esperienza, con l’ascolto responsabile del paziente e con l’ausilio di una squadra di lavoro.
“Nessuno può farcela da solo, nemmeno io, come medico, posso. È il lavoro di squadra che vince. È il fatto di fare sport, avere una famiglia supporti… e soprattutto non sottoporre mai chi ha il diabete a un ambiente giudicante. Chi ti mostra il suo diario alimentare si espone. Se io, medico, reagisco con un giudizio, la prossima volta non mi viene più raccontata la verità. Si omettono cibi e la cura si compromette. Al giudizio segue inevitabilmente la perdita di fiducia”.
Sono più di 20 minuti che ascolto le parole-cura del Dottor Valerio e ne sono completamente rapita. Non si è parlato per nulla della patologia, si è parlato dell’essere umano che ci deve fare i conti. Di un’attenzione non scientifica ma empatica, di una sensibilità che non è quella del sensore, di dare un nome al sentire, e anche di avere la lucidità di vedere l’altro lato della medaglia.
“Non possiamo dimenticare che il diabete può trasformarsi in una colossale opportunità per rivedere al meglio il proprio stile di vita. Spesso le persone con diabete vivono più a lungo degli altri, grazie allo sport e a una giusta alimentazione. Anticipano le esperienze e quindi sono in grado di scegliere prima degli altri, maturano e hanno consapevolezza del proprio corpo prima degli altri. Non c’è un sogno a cui si debba rinunciare. Nemmeno uno.”
Non ci sono dubbi, il valore aggiunto di una terapia è il medico curante, colui che si prende la responsabilità del corpo e della psiche di un altro essere umano. Del complicato groviglio di emozioni e paure che accompagnano una malattia cronica, e che tra il calcolo dei carboidrati e dell’insulina si preoccupa di dirti che non solo sopravviverai, ma vivrai bene, senza dover rinunciare a nessuno dei tuoi sogni.
A cura di Patrizia Dall’Argine