Discesa pericolosa

Aggiornamento

IPOGLICEMIA: I LIMITI DELLA TERAPIA INTENSIVA
Discesa pericolosa

Il livello glicemico deve essere mantenuto il più possibile nella normalità, evitando che si abbassi troppo: al di sotto di 70 mg/dL si va incontro a scompensi e rischi, che è importante saper prevenire

prof. Paolo Brunetti
Direttore Dipartimento di Medicina interna Università degli Studi di Perugia

Riportare la glicemia alla norma quanto più precocemente possibile dopo la diagnosi di diabete è quanto mai necessario ai fini della prevenzione delle complicanze microvascolari, quali la retinopatia, la nefropatia, la neuropatia, ma anche delle complicanze cardiovascolari aterosclerotiche, quali infarto del miocardio, ictus cerebrale e arteriopatia ostruttiva degli arti inferiori.
Il maggior ostacolo al conseguimento della normoglicemia è rappresentato tuttavia dal rischio ipoglicemico. I vari studi di intervento che hanno confrontato una terapia intensiva con quella convenzionale, sia nel diabete di tipo 1, come il Dcct, sia nel diabete di tipo 2, come l’Ukpds e, più recentemente, l’Accord, il Vadt e l’Advance, hanno dimostrato, come era logico attendersi, che quanto più basso è il target glicemico previsto dal protocollo, tanto più alto è il rischio di ipoglicemia. Sono anche indici predittivi di ipoglicemia, insieme con la terapia insulinica e con i valori più bassi di partenza di glicemia e di emoglobina glicata, la durata del diabete e una storia clinica, alla prima visita, di episodi ipoglicemici pregressi.
In media, si può ritenere che un diabetico di tipo 1 vada soggetto a circa due episodi settimanali di ipoglicemia sintomatica. In uno studio recente (UK Hypoglycemia Study), l’incidenza di una ipoglicemia grave è stata di 110 episodi per 100 anni/paziente in soggetti con durata del diabete inferiore a 5 anni, ma di ben 320 episodi per 100/paziente se la durata del diabete era superiore a 15 anni.
Secondo la definizione attuale, l’ipoglicemia si identifica con valori di glicemia inferiori a 70 mg/dL. Glicemie inferiori a questa soglia vengono riconosciute dai sensori cerebrali che stimolano la secrezione degli ormoni controregolatori, in primo luogo del glucagone, della adrenalina e del neurotrasmettitore noradrenalina che liberano glucosio dalle scorte epatiche di glicogeno e stimolano la produzione di glucosio attraverso la neoglicogenesi epatica e renale.
Segnali di allarme
La risposta ormonale controregolatoria avviene prima ancora che compaiano i sintomi di allarme dell’ipoglicemia che insorgono abitualmente con valori di glicemia inferiori a 60 mg/dL. I sintomi di allarme consistono in tremori, sudorazione fredda, cardiopalmo, ansietà, irritabilità e fame e hanno il compito di indurre il soggetto a ingerire del cibo per riportare alla norma la glicemia.
Se, tuttavia, vi è la tendenza alla ripetizione nel tempo di episodi ipoglicemici anche lievi (per esempio, una volta al giorno), il cervello si adatta all’ipoglicemia e invia i segnali di allarme a livelli progressivamente più bassi di glicemia, certamente inferiori a 50 mg/dL. Questa incapacità di avvertire i sintomi dell’ipoglicemia (hypoglycemia unwareness) è una grave complicanza del diabete e della terapia ipoglicemizzante, perché, venendo a mancare questo meccanismo di protezione, il soggetto è esposto al rischio di una marcata neuroglicopenia con conseguente disfunzione cerebrale. I sintomi neuroglicopenici che compaiono a partire da valori di glicemia inferiori a 50 mg/dL, con tendenza a un progressivo peggioramento, consistono in confusione mentale, cefalea, anomalie del comportamento, crisi convulsive e coma fino alla morte.
Gli studi più recenti
I più recenti studi di intervento eseguiti nel diabete di tipo 2, in particolare l’Accord e il Vadt, hanno richiamato l’attenzione sul ruolo che potrebbe essere attribuito all’ipoglicemia nel provocare eventi cardiovascolari e aumentare la mortalità. In effetti, contrariamente alle attese, la terapia ipoglicemizzante intensiva negli studi citati ha prodotto, rispetto a una terapia convenzionale, un aumento della mortalità totale. Anche se non è certa la dipendenza dell’aumento della mortalità dalla maggiore incidenza di episodi ipoglicemici osservata in corso di terapia intensiva, è plausibile pensare a un collegamento tra i due fenomeni sulla base di una serie di considerazioni.
In pazienti diabetici sottoposti a monitoraggio continuo della glicemia, è stata osservata da tempo la coincidenza di tipiche alterazioni elettrocardiografiche (aumento della durata del tratto QT, riduzione del tratto PR e sottoslivellamento del tratto ST) con valori registrati di glicemia inferiori a 70 mg/dL. In alcuni casi, ma non in tutti, alle alterazioni elettrocardiografiche faceva riscontro la comparsa di dolore toracico di tipo anginoso. Alla base di queste alterazioni, vi è la risposta adrenergica che determina un aumento della portata cardiaca e quindi del lavoro miocardico e un aumento del consumo di ossigeno con il rischio di ischemia, tachicardia parossistica o fibrillazione ventricolare e morte improvvisa.
A livello del sistema nervoso centrale, l’ipoglicemia può rendersi responsabile di deficit neurologici focali e di attacchi ischemici transitori. Prove recenti, inoltre, indicano che episodi ipoglicemici ricorrenti possono predisporre, a lungo termine, alla comparsa di disfunzione cognitiva e di demenza. Per converso, una grave disfunzione cognitiva è stata associata, di per sé, a un maggiore rischio ipoglicemico.
Non dobbiamo poi dimenticare che l’ipoglicemia può influenzare gli eventi cardiovascolari non soltanto attraverso gli effetti negativi della risposta catecolaminergica, ma anche inducendo la liberazione di una serie di mediatori dell’infiammazione, come la proteina C reattiva, le interleuchine 6 e 8, il Tnf alfa (tumor necrosis factor alfa)e l’endotelina 1 e di fattori di crescita come il Vegf(vascular endothelial growth factor) e stimolando l’attivazione piastrinica, la mobilizzazione leucocitaria e la coagulabilità del sangue. Anche la funzione endoteliale è compromessa, come risulta dall’osservazione recente di una minore tendenza alla vasodilatazione endotelio-dipendente in corso di ipoglicemia.
Tutto ciò deve indurre a porre una particolare attenzione al rischio rappresentato nel diabete di tipo 2 da una terapia ipoglicemizzante troppo aggressiva.

Se il paziente ha i capelli bianchi
Nella scelta della terapia migliore, è opportuno tenere sempre presente la necessità di prevenire la ricorrenza di episodi ipoglicemici, particolarmente nei soggetti più anziani, con più lunga durata del diabete e con complicanze cardiovascolari in atto. In questi casi, è opportuno che la terapia si ponga un obiettivo glicemico meno rigido da raggiungere con gradualità. Se nei diabetici di tipo 1 o di tipo 2 di recente insorgenza e privi di complicanze cardiovascolari in atto, dobbiamo perseguire valori di glicemia e di emoglobina glicata quanto più possibile prossimi alla norma, nei diabetici di tipo 2 con lunga durata di malattia e già clinicamente compromessi dovremmo accontentarci di valori di glicata compresi fra il 7 e l’8%, subordinando comunque qualsiasi decisione a una valutazione accurata delle condizioni individuali.

Le strategie della prevenzione
Le modalità di conduzione della terapia hanno un ruolo fondamentale nella prevenzione dell’ipoglicemia. Nel diabete di tipo 1, come nel diabete di tipo 2 in fase avanzata, la terapia insulinica deve prediligere l’impiego separato di una insulina basale e di una insulina ad azione rapida per la copertura dei pasti. Nel diabete di tipo 2 di recente insorgenza, la scelta farmacologica deve orientarsi sugli ipoglicemizzanti orali insulinosensibilizzanti come farmaci di prima linea. Questa indicazione trova la sua ragione d’essere nella fisiopatologia del diabete di tipo 2, centrata sulla presenza della resistenza insulinica come elemento patogenetico fondamentale, e sui risultati dello studio Bari 2 che ha dimostrato il vantaggio di questa classe di farmaci. I farmaci insulinosecretagoghi appartengono a una fase successiva della terapia, mentre la terapia insulinica deve subentrare dopo il fallimento della terapia ipoglicemizzante orale o, comunque, in presenza di segni clinici e laboratoristici di evidente insulinopenia (mancanza di insulina).

UNO STUDIO OLANDESE

Terapia e vitamine

Uno studio olandese condotto presso l’Università di Maastricht ha dimostrato che la somministrazione di metformina in associazione all’insulina a circa 400 diabetici di tipo 2, per un periodo di poco superiore ai 4 anni, ha determinato, rispetto ai soggetti trattati con sola insulina, un deficit di vitamina B-12 e di acido folico e un eccesso di omocisteina. Il gruppo trattato con metformina ha presentato, rispetto a quello trattato con placebo, una riduzione media della concentrazione di vitamina B-12 del 19% e di folato del 5% e un aumento della concentrazione di omocisteina del 5%. Sono considerati indicativi di un deficit di vitamina B-12 valori inferiori a 150 pmol/L, mentre vengono definite basse le concentrazioni comprese fra 150 e 220 pmol/L.
Non è noto se il deficit di vitamina B-12 derivi da un malassorbimento intestinale indotto dalla metformina o da una possibile variazione delle abitudini alimentari provocata dalla assunzione del farmaco. In ogni caso, poiché la  metformina viene, a buon diritto, adottata sempre di più, come farmaco di prima scelta, nella terapia del diabete di tipo 2, i dati riportati in questo studio (de Jager J. et al.,Long term treatment with metformin in patients with type 2 diabetes and risk of vitamin B-12 deficiency: randomised placebo controlled trial – BMJ 2010;340:c2181, doi: 10.1136/bmj.c2181 – 20 maggio 2010) meritano un’attenta considerazione e, possibilmente, una conferma, anche in previsione della eventuale necessità di praticare uno screening diagnostico nei soggetti trattati a lungo con metformina e della opportunità o meno di praticare una implementazione vitaminica.