E dulcis in fundo, la storia di Chiara Piras

Dopo la nostra intervista sono andata a vedere su Google qualche foto di Albenga.
Non ci sono mai stata, benché a volte ne abbia sentito parlare, o abbia avuto percezione diretta della sua esistenza attraverso i cartelli che punteggiano la costa, fino al confine con la Francia.
Mi è piaciuta, dalle foto, Albenga. Ha un bel centro storico e poi c’è il mare.
Sapere che la persona che ti parla ha il mare a portata di mano, è già tanto. È una conoscenza quasi cruciale.
Sarà a causa dell’amore sconsiderato che nutro verso di lui, o forse è per quello sguardo che ho ritrovato sempre negli occhi delle persone che ci vivono, abituate a un orizzonte più lontano, più in là.

Anche la storia di Chiara Piras ha a che fare con orizzonti più lontani. Ha a che fare col desiderio di dare forma alla versione migliore di sé stessi. Che è un lavoro continuo e parecchio duro.
24 giugno del 2002. Questa è la data del suo esordio. Sette anni e mezzo. Questa era la sua età.
«Ho iniziato da subito a gestirmi con una certa autonomia. Era come un gioco. Non mi sentivo diversa, ma speciale. Avevo le attenzioni di tutti. Poi, andando avanti con l’età, si è bloccato qualcosa. Ho iniziato ad avvertirlo come un peso verso i dieci anni. Pranzavo dai miei nonni e non appena tornavo a casa mi riempivo di merendine e poi nascondevo le carte. A tredici, quattordici anni, mangiavo di tutto, senza alcun tipo di restrizione. Avevo ovviamente la glicemia alle stelle. Nonostante la preoccupazione costante dei miei, nonostante quello che mi veniva detto dalla diabetologa, io continuavo. Era come se volessi fare un dispetto a quella situazione e soprattutto era come se fossi totalmente disconnessa dal mio corpo. Non ero io ad avere il diabete. Io potevo fare tutto quello che volevo, potevo esagerare.
Mentivo a tutti. A me stessa e agli altri. Mi inventavo i valori delle glicemie. Non ho mai voluto avere contatti con altri adolescenti col diabete, e se li avevo fingevo di non avere nessun problema a riguardo e che i miei valori fossero nella norma. Poi a vent’anni ho sofferto di depressione. Le cause erano due, la morte di mio nonno, al quale ero legatissima, e il fatto di sentirmi sempre sbagliata».


C’è da fare un lungo respiro. Riprendere fiato. Mi ha sempre colpito il fatto che, mentre si racconta la propria storia, in poche parole si riassumono anni. Invece, nella vita vissuta, accade il contrario.
Anni è la durata temporale che assumono certi istanti. Lunghissimi e impenetrabili.
Momenti sui quali si consolida, a un certo punto, l’idea irrazionale che non passeranno più. Irrazionale dico, perché sappiamo che non sarà così. Soltanto che il loro perdurare, mentre li stiamo attraversando, è di una costanza e di un’intensità inimmaginabili.
Una cosa è certa, si tratta di un percorso graduale, e inevitabilmente trasformativo.

Nel caso di Chiara, ha coinciso con l’avvicinamento al buddismo.
«Ho preso il Gohonzon il 24 giugno del 2018. Ho pensato che questa data non fosse casuale. Sedic’anni prima c’era stato il mio esordio e sedic’anni anni dopo festeggiavo la mia rinascita e cambiavo la mia visione sul diabete. Ho smesso di chiedermi: ‘Perché a me?’. E anche di sentirmi sbagliata, e questo è stato un passaggio importantissimo. Ho sentito che finalmente era arrivato il momento in cui dovevo, e potevo, assumermene la responsabilità. Ho iniziato privandomi per ventuno giorni di tutte le cose verso le quali non riuscivo a darmi un limite: dolci, alcol. Mi scrivevo sul braccio: sono diabetica. E ce l’ho fatta. Da lì, poco a poco, ho iniziato a reintegrare tutti gli alimenti, ma in maniera moderata. Infine ho deciso di parlarne, senza vergogna e di condividerlo».
E così ha fatto, aprendo una pagina Instagram e Facebook che si chiama Nodulcisinfundo.


Chiara è fidanzata con Marco e dice che lui ha vissuto le fasi del suo cambiamento. Marco sta studiando per diventare personal trainer e si allenano insieme monitorando le glicemie.
«Ho iniziare anche ad accettare che il diabete influenza i miei stati d’animo. Se sono in ipoglicemia divento suscettibile e permalosa. E se io e Marco discutiamo, lui si ferma e mi dice: ‘Ma è un litigio o un ipotigio?’».
Mi viene da ridere. Bisognerebbe fare una precisa classificazione di tutti gli ipotigi possibili, penso.


Parliamo anche della quarantena, «L’hai sofferta?», le chiedo.
«Sì, durante il lockdown ho avuto attacchi di panico e ansia. Mia sorella, che è psicologa, mi ha dato una chiave di lettura illuminante. Per me è stato come rivivere l’esordio. Non poter uscire di casa assomiglia molto al fatto di non poter uscire dal proprio corpo. Ho sempre avuto problemi con regole e limiti e li ho rivissuti. Perché la sfida non è mai vinta per sempre. Io penso che posso sempre migliorare. Continuano ad esserci momenti di sconforto, ma non mi spaventano più come prima. Accetto il fatto, che a volte, ci si può anche sedere e aspettare un po’ prima di rialzarsi».


Io l’ascolto e penso che questo, da guardare, è proprio un bellissimo orizzonte.

A cura di Patrizia Dall’Argine