Qui sono le 11 di mattina. Ma dove si trova lei sono le 5 di notte.
Non avevo fatto il calcolo quando ci siamo messe d’accordo per l’intervista. Non mi sono resa conto, quando ha proposto «Facciamo alle 11, ora italiana», che in Canada sarebbe stata ancora notte.
Ma al telefono Giulia Meggiolaro mi tranquillizza: «Non preoccuparti, l’avevo calcolato e non mi pesa affatto».
Me la immagino ancora sotto il piumone di una notte fredda a Toronto, mentre sonnecchiando ancora un po’, risponde alle mie domande. Mi immagino la sua stanza, la famiglia che la ospita, la ragazza tedesca che vive nella stessa famiglia e con la quale lei passa molto tempo. «Siamo molto legate», mi dice. Ne sono certa. So quanto sia importante sentirsi molto legati a qualcuno quando si è lontani da casa. Ma non so immaginare cosa significhi essere lontani da casa alla sua età, a sedici anni.
Sì, perché Giulia farà due anni a Toronto e finirà, in questo modo, le scuole superiori un anno prima rispetto ai cinque consueti.
Ho molte domande per lei. Ma la prima – che è quella che mi interessa di più – è la seguente: com’è stata la partenza?
«Un mix di eccitazione, felicità, paura, commozione. Era il 16 agosto. I miei genitori non hanno pianto mentre erano con me all’aeroporto, ma poi mia cugina mi ha mandato foto di quella stessa giornata e avevano gli occhi gonfi e rossi».
La partenza di una persona non è mai un concetto univoco. Per ogni persona che parte, ce ne sono altre che restano. E queste due condizioni sono speculari, corrispondenti e intrecciate. Anche se, per ipotesi, non avessimo nessuno da lasciare, da salutare, nessuno da cui congedarci, ci sarebbero comunque gli spazi, gli oggetti, i luoghi. Ogni cosa che non possiamo portare con noi e che continua a esistere anche senza di noi.
Ha ragione Giulia, partire è un mix di tante cose. E ci vuole coraggio per riuscire ad accogliere quella massa intricata di emozioni. Ci vuole coraggio per prenderla tutta, così com’è.
E poi cercare una normalità nella nuova vita al di là dell’Oceano. Una normalità nella straordinarietà.
«La famiglia che mi ospita è molto impegnata, e quindi capita che io e la ragazza tedesca mangiamo insieme. Lo studio non è pesante e non è un problema. Ci sono molti studenti internazionali e gli insegnanti sono molto disponibili. La cosa più difficile è gestire il pranzo e la cena. La pausa pranzo è alle 11:30 e si cena tra le 17 e le 19».
La difficoltà ovviamente non sta negli orari in sé, ma nel ritrovare un equilibrio e regolare il proprio corpo a queste nuove fasce orarie, visto che Giulia ha il diabete di tipo 1 dal 2012.
«Prima di partire, ho chiesto ai miei genitori di lasciarmi più spazio nella gestione del diabete. Sapevo che dovevo farcela da sola. A casa ho sempre avuto il loro appoggio, anche di notte capitava mi correggessero le glicemie. Ora, anche se vedono tutto in remoto, sento che sono io responsabile di tutto. Ogni volta che ho dubbi li chiamo. Ci sentiamo tutti i giorni. Il mio tempo notturno coincide spesso con la loro veglia. Tengo la suoneria del telefono, così possono svegliarmi in caso di ipo. Anche se è stato un salto nel vuoto, va tutto bene».
La cosa che più mi colpisce di Giulia è la sua narrazione priva di qualsiasi traccia di eroismo. È la grande normalità con cui parla di questa esperienza, di questo suo salto nel vuoto. Mi dice solo che lo desiderava tanto. Le sarebbe piaciuto da sempre. E quindi, alla fine, l’ha fatto. Si è preparata guardando film e serie in inglese. Si è preparata alla mancanza della sua famiglia, della sua casa, si è preparata prendendosi carico della sua salute e del suo diabete. E ha fatto tutto questo perché desiderare senza agire porta ad una vita con cassetti pieni di sogni che sono rimasti lì.
«Quando sono partita non ero certa di farcela. Ma mi sono imposta di trovare la quadra. E ho capito che quando è necessario sedersi e fermarsi, bisogna farlo. Essere indipendenti è bellissimo. Mi sta facendo capire che posso cavarmela da sola».
Ci salutiamo. Io torno al mezzogiorno di questa parte di mondo. Lei verso l’alba della parte di mondo nella quale è ospitata e che, per un lungo periodo, potrà chiamare casa.
A cura di Patrizia Dall’Argine