Responsabile scientifico del corso è il professor Antonio Ceriello, direttore della Scuola di specializzazione in geriatria dell’Università di Udine e docente di malattie metaboliche all’Università di Warwick, in Inghilterra. Gli abbiamo chiesto di parlarci di Gluco-Lab e delle questioni affrontate.
Il controllo glicemico ottimale da parte del paziente riduce il rischio di complicanze in misura fondamentale: sia di quelle microangiopatiche, sia di quelle cardiovascolari. L’automonitoraggio è lo strumento che il paziente ha per aiutarci a ottimizzare il controllo della glicemia: misurarla regolarmente permette di sapere come cambia nel corso della giornata e di instaurare quindi le adeguate strategie terapeutiche.
C’è un abbattimento del rischio del 50-80%. Vari studi dimostrano che migliore è il controllo della glicemia, minore è la probabilità di complicanze. La correlazione è lineare: se uno riuscisse a mantenere la glicemia sempre normale, il rischio di complicanze sarebbe bassissimo.
Ci sono linee guida che stabiliscono che per chi è in terapia insulinica ci vogliono sette controlli al giorno, così da avere un quadro abbastanza ampio delle variazioni della glicemia nella giornata e poter aggiustare la terapia insulinica di conseguenza.
Per i pazienti in cura con farmaci ipoglicemizzanti orali, il numero di monitoraggi è inferiore, ma è in funzione della situazione del paziente: in generale, possiamo dire tre o quattro al giorno, ma, se la condizione non è ottimale, si devono aumentare per poter attuare una terapia migliore.
Il ruolo del diabetologo è cambiato perché ha uno strumento per poter intervenire in modo più efficace, in quanto può meglio regolare la terapia. Però, è evidentemente mutato anche il rapporto con il paziente, perché l’automonitoraggio richiede l’impegno della persona diabetica, che deve pungersi il dito, controllare la glicemia, saper gestire correttamente l’apparecchio, in modo da ottenere valori attendibili. Quindi, chi ha il diabete deve essere addestrato a eseguire l’automonitoraggio, ma occorre anche che sia in grado di modificare la terapia in funzione dei dati dell’autocontrollo: perché non serve sapere il valore se poi non si fa niente. Perciò è necessaria una alleanza terapeutica tra i due soggetti: ora il paziente deve prendersi la responsabilità di fare la sua parte. Il medico deve spiegargli che l’autocontrollo è importante, insegnargli come va fatto, fargliene capire il significato, ma se poi il paziente non si prende l’impegno di praticarlo con correttezza e di far seguire i necessari interventi terapeutici, la cosa rimane fine a sé stessa.
Una persona bene addestrata può eseguire i controlli bene al 100%, perché le si insegna scrupolosamente tutta la parte tecnica in modo che il rischio di misurazioni con valori non attendibili è zero. La risposta del paziente di solito è molto buona all’inizio, perché c’è forte motivazione. Il problema è che coloro che partono bene e hanno buoni risultati dall’autocontrollo, tendono poi a rilassarsi, a pensare di averne meno bisogno, e così riducono le misurazioni. In realtà, le cose vanno bene proprio perché il controllo si fa con assiduità. Questa tendenza ad allentare l’attenzione quando le cose vanno bene è umana, non è sorprendente, ma è un errore da evitare.
A ostacolare la compliance c’è innanzitutto il metodo di rilevazione: anche se abbiamo aghi quasi indolori e la quantità di sangue richiesto è minima, pungersi il dito sei-sette volte al giorno non è una cosa confortevole. Poi ci sono problemi legati agli apparecchi di misurazione: alcuni sono più maneggevoli o facili da usare di altri, più adatti a un paziente e meno a un altro. Dovrebbe essere compito del medico (e dell’infermiere, che spesso si occupa della parte tecnica) selezionare un apparecchio funzionale alle caratteristiche del singolo paziente. Se, per esempio, ho in cura una persona molto anziana, è inutile che le consigli un apparecchio molto sofisticato e complicato da adoperare.
Bisogna lavorare seriamente sulla motivazione del paziente, stabilendo un buon rapporto di comunicazione con lui: questo è infatti uno degli aspetti su cui abbiamo molto insistito in Gluco-Lab.
Il team diabetologico è una realtà consolidata in Italia. C’è una forte spinta delle società scientifiche dei medici, ma anche di quelle infermieristiche, a puntare sul concetto di team, dove ognuno svolge il suo ruolo, ma in stretta relazione con gli altri. È una metodologia ben conosciuta e applicata in Italia: sia pure con differenze tra zona e zona, in generale da noi funziona bene e siamo più avanti di tanti altri Paesi, perché l’idea ha cominciato a svilupparsi e a essere messa in pratica da molti anni a questa parte.
La soluzione ideale sarebbe che vi fossero diabetologo, infermiere, dietista, podologo, psicologo.
Si è puntato anzitutto sull’evidenza scientifica inconfutabile che il controllo ottimale della glicemia è la strategia vincente per prevenire le complicanze e che deve cominciare il più presto possibile. Quanto più presto si parte con il controllo ottimale, tanto maggiore è la possibilità che a lungo termine non si sviluppino le complicanze: questo è il cardine scientifico su cui si è poi impostato tutto il resto dei contenuti. Come realizzare questo obiettivo? Non soltanto con una valida tecnologia, ma anche con un team che funzioni e che sappia costruire una buona relazione con il paziente per ottenerne la maggiore compliance possibile. Siamo dunque partiti da un aspetto scientifico e poi siamo passati alle metodologie utili per ottenere il migliore controllo possibile, puntando quindi molto sull’aspetto psicologico.
Assolutamente sì, sia per la risposta quantitativa, sia per la partecipazione attiva e dinamica: i presenti hanno posto tante domande, hanno preso parte a lavori di gruppo, è stato un incontro interattivo, non soltanto una lezione ex cathedra.
Sì, proseguiremo. Vogliamo avere un feedback su quanto è stato efficace l’intervento. Abbiamo raccolto dati e contributi dai partecipanti e li stiamo elaborando: vogliamo avere un quadro della situazione attuale, su come l’automonitoraggio è accettato e gestito, verificare se le linee guida sono rispettate e vedere se si modificano i comportamenti. L’anno prossimo focalizzeremo l’attenzione su un tema non sufficientemente considerato: l’alimentazione è una strategia terapeutica. Modulare il cibo aiuta a controllare la glicemia: non esistono solamente i farmaci, anche la dieta è fondamentale.
Nel corso c’era appunto una parte dedicata alla relazione con il paziente, concepita proprio per mettere in risalto i possibili errori da non fare e per illustrare metodologie da adottare, strategie di comunicazione, tecniche e problematiche relazionali, in modo da far capire come comportarsi per ottenere la compliance del paziente. Abbiamo infine sottolineato quanto sia fondamentale l’atteggiamento dell’operatore verso il paziente: soltanto se è ben disposto, aperto ed empatico, può ottenere risultati da chi gli sta di fronte.