Il diabete in classe. Il punto di vista di Jessica Fantini, insegnante

Quando diciamo che non è più come una volta, esattamente cosa intendiamo?
Quando si dice che i legami non sono più quelli di una volta, che le amicizie non sono più quelle di una volta, che i valori non sono più quelli di una volta.
Il senso di giusto e sbagliato, il modo in cui stiamo al mondo, l’etica.
I bambini non sono più quelli di una volta, si dice.
Gli insegnanti, nemmeno a parlarne.

“Come una volta” significa sempre meglio. Mentre presente, e implicitamente anche futuro, sono sempre peggio.
Come se presente e futuro fossero condannati alla disgregazione e alla perdita di tutte le cose che rendono umano un essere umano.
Come se l’integrità fosse cosa che ha riguardato altre ere, altri mondi, ormai inaccessibili.


Io ascolto la storia di Jessica Fantini, una maestra che insegna nel comune di Villalta di Cesenatico, e in un attimo mi sembra che la discriminante, ciò che fa umano un essere umano, non abbia a che vedere col tempo ma col desiderio, con la volontà.
Ciò che fa umano un essere umano ha a che fare con la scelta, o meglio ancora col suo plurale, le scelte.
Io ascolto una maestra della scuola primaria che parla dei bambini come di grandi maestri. Che chiama la sua classe famiglia. Che mi racconta del cerchio dell’amicizia, ovvero di qualcosa che un bambino può richiedere quando si sente giù. Lui ne parla ai compagni, loro ascoltano e poi ci si confronta, si snocciola insieme la dinamica del problema, si cerca una soluzione.
Mi spiega di un modo di valutare il loro operato che mette in risalto le qualità di ognuno, evitando accuratamente di mortificare o di creare competizioni.
C’è un entusiasmo, una gioia, una commozione – e anche una purezza – nel suo modo di raccontare il microcosmo-classe, che avrei una gran voglia di prendere la macchina e di andare a vedere, di andare a conoscere questi bambini che non sono quelli di una volta, sono quelli di oggi.


Sono bambini ai quali, ad esempio, è stato spiegato cosa fosse il diabete.
È stato fatto, perché una componente del microcosmo-classe ha il diabete. Una loro compagna, un’amica.

Si è scelto di parlarne, per evitare che Mia – è questo il suo nome e in questa sede abbiamo già raccontato la sua storia – dovesse uscire dalla classe per misurare l’insulina, o per correggerla.
Si è scelto di parlarne, cosicché tutti quanti sapessero come interpretare il suono del microinfusore, cos’è un’ipoglicemia e come si risolve.
Parlandone, ogni compagno di classe diventa responsabile della salute di Mia. E questo modo di intendere le cose non è mai unidirezionale.
A sua volta, Mia è responsabile dei suoi compagni. In modi diversi, ovviamente, ma ugualmente responsabile.
In pratica si crea un nucleo di persone coese. Dove non arrivo io, arrivi tu.
E si percepisce, fin da piccolissimi, che senza gli altri non si può stare. Che senza gli altri non si vive pienamente.
E che gli altri sono davvero uguali a noi. Se riconosco i limiti dell’altro, posso non aver paura dei miei.


Alla base, è evidente, ciò accade quando un insegnante sceglie di agire concretamente per il bene dei suoi alunni.
Per poter parlare di diabete, per poter coinvolgere la classe, Jessica si è dovuta formare. Ha partecipato ai corsi dell’ASL, ha fatto ricerche approfondite, si è consultata con i medici e con i genitori.
Ha utilizzato il suo tempo, affinché non ci fossero barriere, affinché Mia non dovesse uscire dalla classe, sentendosi diversa.
Ha dato valore alla diversità, creando un libro, una storia, che i bambini potessero capire.
Insomma, ha scelto.

E scelte di questo tipo, a pioggia, ne provocano inevitabilmente sempre altre.
I suoi alunni, ad esempio, hanno scelto di essere presenti gli uni per gli altri.
E spero che magari, altri insegnanti, abbiano scelto – o sceglieranno – di fare lo stesso.


Qualcuno direbbe che sembra una storia di altri tempi, vero?
Eppure è una storia dei nostri. Di questi nostri folli tempi, carichi di contraddizioni, nei quali a volte fatichiamo a specchiarci, ma altre è davvero semplice e quello che vediamo ci piace. Molto.
Jessica mi dice che viene da una famiglia di insegnanti e che lei ha sempre voluto percorrere quella strada. Che fin da piccola la sentiva come grande passione, e che col tempo ha assunto la forza e l’imperativo di una vocazione.
E io, sono profondamente contenta che l’abbia seguita.

A cura di Patrizia Dall’Argine