Il messaggero della salute

Aggiornamento
UN INDICATORE FONDAMENTALE ANCHE IN CASO DI RICOVERO
Il messaggero della salute
La glicemia predice la prognosi dei pazienti ricoverati in ospedale. Se è molto alta, ci avverte dei rischi a cui si va incontro, se la si riduce tempestivamente si migliorano il decorso e l’esito finale in casi di infarto o ictus e altri eventi acuti
prof. Paolo Brunetti
Direttore Dipartimento di Medicina interna Università degli Studi di Perugia
Sappiamo ormai da tempo, e senza ombra di dubbio, che le complicanze croniche del diabete -retinopatia, nefropatia, neuropatia e complicazioni cardiovascolari, per citare le più importanti- sono prodotte dalla persistenza nel tempo di valori elevati di glicemia e che possono perciò essere prevenute con una terapia accurata, volta a riportare la glicemia in un ambito il più possibile prossimo alla norma. Non ci stancheremo mai di raccomandare che, sempre e in ogni caso nel diabete di tipo 1, infanto-giovanile, e quasi sempre nel diabete di tipo 2 (a meno, cioè, di particolari controindicazioni legate all’età o alle condizioni generali del soggetto) dovremmo mirare a ottenere un valore di emoglobina glicata (HbA1c) almeno inferiore al 7 se non al 6,5%. Ciò significa che la glicemia a digiuno e prima dei pasti dovrebbe essere compresa fra 90 e 120 mg/dl e, due ore dopo l’inizio dei pasti, inferiore a 140-150 mg/dl. Questi obiettivi sono oggi raggiungibili grazie anche ai nuovi analoghi dell’insulina di cui disponiamo e alle nuove classi di farmaci che hanno arricchito il nostro armamentario di ipoglicemizzanti orali.
Una ulteriore prova del danno che possono arrecare valori patologicamente elevati di glicemia deriva dalla osservazione comune a numerosi studi, secondo la quale il valore della glicemia registrato in pazienti diabetici, ma anche non diabetici, il giorno stesso del ricovero in ospedale per una malattia intercorrente, ha un significato prognostico per quanto riguarda l’esito a breve e a lungo termine della malattia.
L’esempio classico è quello dei pazienti ricoverati in unità coronarica per infarto acuto del miocardio. Non meno del 20-25% di questi è affetto da diabete mellito. Molti giungono al ricovero già sapendo di essere diabetici, mentre in altri la diagnosi viene posta per la prima volta al momento della ammissione in ospedale. In effetti, la condizione di stress che accompagna l’infarto del miocardio accentua una iperglicemia già esistente in chi già sapeva di essere diabetico o la rende manifesta in soggetti con diabete non diagnosticato o latente. Inoltre, lo stress legato all’evento acuto può essere di tale entità da indurre un aumento della glicemia anche in soggetti che non sono diabetici. Orbene, anche in questi ultimi, al pari dei diabetici, una glicemia elevata al momento del ricovero è predittiva dell’esito finale della malattia coronarica.
Ciò che vale per l’infarto del miocardio vale anche per l’ictus cerebrale, per i pazienti ammessi a una stroke unit e per tutte le condizioni critiche che richiedono il ricovero in una unità di terapia intensiva. In ogni caso, la glicemia al momento del ricovero ha un importante significato prognostico. Sono eloquenti, al riguardo, i dati riportati nel grafico pubblicato in queste pagine, che dimostrano un aumento progressivo della incidenza di mortalità in rapporto a valori crescenti di glicemia rilevata all’ingresso in ospedale, in soggetti diabetici, ma anche non diabetici, ricoverati per infarto acuto del miocardio: per esempio, con valori superiori a 198 mg/dl la mortalità a un anno dal ricovero si avvicina al 50%; al di sotto dei 100, è invece inferiore al 10%. (Bolk J et al.: Int J Cardiol 2001; 79:207)
Queste osservazioni hanno costituito la premessa per una serie di studi diretti a dimostrare che la correzione dell’iperglicemia rilevata al momento del ricovero era in grado di migliorare il decorso e l’esito finale dell’evento acuto. Il primo e il più noto di tali studi è il Digami, eseguito in Svezia su un campione di pazienti ricoverati per infarto acuto del miocardio, con una glicemia all’ingresso superiore a 200 mg/dl (Malmberg K et al.: JACC 1995; 26:57). I pazienti sono stati divisi in due gruppi, trattati rispettivamente con una terapia convenzionale o con una terapia insulinica intensiva. La terapia insulinica intensiva consisteva in una infusione venosa di insulina praticata per almeno 24 ore dopo il ricovero e seguita dalla somministrazione sottocutanea, per almeno 3 mesi, di 4 iniezioni di insulina al giorno. I pazienti in terapia intensiva hanno visto scendere la loro glicemia, dopo le prime 24 ore, dal valore medio iniziale di 277 mg/dl a quello di 173 mg/dl, mentre i pazienti in terapia convenzionale, partendo da un valore di base simile (283mg/dl), hanno registrato, dopo 24 ore, un valore ancora superiore a 200 mg/dl (211 mg/dl).
Il risultato è stato oltremodo rilevante. I pazienti trattati in modo intensivo hanno presentato una mortalità inferiore rispetto a quella dei pazienti in terapia convenzionale già durante il ricovero e a distanza di tre mesi dall’inizio, anche se la differenza è diventata statisticamente significativa soltanto a distanza di un anno dall’insorgenza dell’infarto. Nei pazienti trattati con terapia intensiva l’infusione insulinica ha consentito di ridurre di quasi un terzo il rischio di mortalità e di salvare una vita su ogni 9 pazienti trattati.
Lo studio Digami ha dato l’avvio a tutta una serie di studi analoghi che hanno consentito di rafforzare il concetto della necessità di uno stretto controllo metabolico in tutti i pazienti ricoverati in ospedale per una condizione critica. Uno studio recente (HI-5: “The Hyperglycemia: Intensive Insulin Infusion in Infarction”), di più breve durata del precedente, ha dimostrato, per esempio, una riduzione significativa, in pazienti infartuati trattati con terapia insulinica intensiva, della insorgenza di scompenso cardiaco durante il ricovero ospedaliero e di reinfarto a distanza di tre mesi dall’episodio acuto (Cheng WN et al.: Diab Care 2006; 29:765).
L’esperienza condotta nell’infarto del miocardio è stata trasferita a tutti i pazienti con condizioni critiche ricoverati in unità di cura intensiva di tipo medico e chirurgico, con risultati analoghi. Un importante studio, in questo ambito di patologia, è stato eseguito a Lovanio, in una unità chirurgica di terapia intensiva (Van den Berghe G et al.: NEJM 2001; 345: 1359).
Anche in questo caso, i pazienti sono stati sottoposti o a una terapia insulinica intensiva o a una terapia convenzionale. L’obiettivo della terapia insulinica infusionale, praticata finché i pazienti rimanevano nella unità di terapia intensiva, era quello di riportare la glicemia elevata al momento del ricovero (sia in pazienti diabetici che non diabetici) a valori pressoché normali compresi fra 80 e 120 mg/dl, mentre nel gruppo in terapia standard la glicemia veniva mantenuta su valori appena inferiori ai 200 mg/dl (180-200 mg/dl). Il risultato è stato sorprendente: una riduzione netta della mortalità del 34%. Inoltre, i pazienti trattati in modo intensivo hanno registrato una riduzione della incidenza di sepsi (infezione) del 46% e di necessità di dialisi e di emotrasfusioni, rispettivamente del 41 e del 50%.
Gli stessi autori hanno ripetuto lo studio su pazienti ricoverati in unità mediche di terapia intensiva e hanno riscontrato ancora una riduzione della mortalità nei pazienti trattati con terapia insulinica intensiva per almeno tre giorni -a sottolineare l’importanza non soltanto della intensità, ma anche della durata del trattamento- e un accorciamento dei tempi di ricorso alla ventilazione meccanica e dei tempi di ricovero nella unità di terapia intensiva e in ospedale (Van den Berghe G et al.: NEJM 2006; 354: 449).
LA CORREZIONE DELLA GLICEMIA RIDUCE LA MORTALITA’
Se il cuore è matto
Il controllo della glicemia si è rivelato fondamentale anche i tutti i casi di chirurgia maggiore. La mortalità di pazienti diabetici sottoposti a bypass coronario e particolarmente la mortalità di origine cardiaca è risultata strettamente correlata con il valore della glicemia registrato durante e dopo l’intervento chirurgico. Con l’introduzione della terapia insulinica infusionale iniziata prima dell’intervento chirurgico e protratta almeno fino al terzo giorno post-operatorio, si è pressoché annullato l’eccesso di mortalità riscontrato in precedenza nei diabetici rispetto ai non diabetici (Furnary AP et al: Thorac Cardiovasc Surg 2003; 123: 100). Inoltre, il controllo accurato della glicemia ha consentito di ridurre in modo assai significativo l’incidenza di infezioni sternali profonde (Zerr J et al: Ann Thorac Surg 1997; 63: 356). Ciò non sorprende, ove si ricordi che l’iperglicemia, oltre che esercitare una tossicità cardiovascolare a lungo termine provoca anche effetti a breve termine, deprimendo i meccanismi di difesa immunitaria e di cicatrizzazione.
Infine, considerazioni analoghe valgono anche per i pazienti diabetici che, per una cardiopatia coronarica, devono essere sottoposti ad angioplastica percutanea. Anche in questo caso, la correzione della glicemia è una condizione essenziale per l’esito dell’intervento e per la prevenzione della restenosi. (P.B.)
RIDURRE LA GLICEMIA ANCHE FUORI DALLE EMERGENZE
Il traguardo da raggiungere
Il valore prognostico della glicemia rilevata al momento dell’ingresso in ospedale, si estende a tutti i pazienti diabetici già diagnosticati o di nuova diagnosi ricoverati in corsie comuni, anche al di fuori di particolari condizioni di emergenza. In uno studio retrospettivo su circa 2000 pazienti ricoverati per varie patologie, è stata rilevata una mortalità dell’1,7% in soggetti normoglicemici all’ingresso, del 3% nei pazienti iperglicemici con diabete noto e del 16% in soggetti con diabete di nuova diagnosi (Umpierrez GE et al.: J Clin Endocrinol Metab 2002; 87:978).
L’obiettivo glicemico da raggiungere nei pazienti ospedalizzati per condizioni critiche (infarto del miocardio, ictus cerebrale, ricoveri in unità di terapia intensiva medica o chirurgica) o ricoverati in corsie comuni, può essere diverso a seconda della patologia di base, ma ciò che vale in ogni caso e che non può più essere ignorato, alla luce dei molti studi raccolti sull’argomento, è il valore prognostico della glicemia rilevata durante il ricovero. E’ perciò importante riconoscere, come viene sottolineato con forza in una recente autorevole rassegna (Svensson E et al.: Eur Heart J 2005 ; 26 :1255) “che la terapia insulinica, quando possibile dovrebbe essere intensiva ed efficace, con frequenti aggiustamenti per ottimizzare il controllo, che l’insulina dovrebbe essere somministrata per infusione venosa quando necessario e che, prima della dimissione, il paziente dovrebbe ricevere una adeguata educazione e un preciso indirizzo di cura”
Così come è importante riportare alla normalità o alla quasi normalità una glicemia patologicamente elevata, è altrettanto necessario evitare di indurre un rischio ipoglicemico perché anche l’ipoglicemia  può essere causa di complicanze e di un eccesso di mortalità (Inzucchi SE: NEJM 2006; 355: 1903). E’ necessario perciò ricorrere a protocolli di infusione insulinica che consentano una sicura, ma graduale riduzione della glicemia (Malhotra A: NEJM 2006; 354: 516).
Condizione indispensabile per l’applicazione di un protocollo infusionale è, infine, la sua piena condivisione da parte dei diabetologi, dei medici specialisti operanti nelle unità di cura intensiva e degli stessi infermieri, che devono essere adeguatamente istruiti al controllo frequente della glicemia e alla regolazione della infusione insulinica. (P.B)