Diagnosi sensate
Nello scrivere questo articolo, mi trovo in difficoltà con le parole. Sto cercando di tradurre il concetto di meaningful diagnosis, dall’inglese, perché le fonti scientifiche a cui faccio riferimento sono tutte anglofone. Diagnosi “significativa” o “sensata” o “efficace” non mi sembra sufficiente, ho bisogno di più parole: perché una diagnosi sia “meaningful”, il contenuto della diagnosi deve essere pienamente compreso, deve avere senso e valore per il paziente e questo senso deve essere condiviso tra medico e paziente.
“Meaningful diagnosis” significa tutte queste cose: servono tante parole per spiegarla, ma probabilmente ne servono ancora di più per raggiungerla.
Il tempo per le parole non è sempre la priorità per i clinici, soprattutto di fronte a una cosa apparentemente semplice come una diagnosi, in fondo stiamo parlando solo di un’etichetta. Tuttavia raggiungere una diagnosi significativa è una tappa indispensabile non solo per costruire una buona relazione tra paziente e curante, ma anche per garantire l’adesione terapeutica e l’attivazione di un cambiamento nel proprio stile di vita, che nel diabete di tipo 2 è parte integrante del successo della terapia.
Il significato di una diagnosi
“La malattia attacca e trasforma l’organismo, ed è questo l’aspetto su cui giustamente si concentra la maggior parte della formazione medica. Ma attacca e trasforma anche la nostra identità. Grave o lieve, cronica o acuta, incerta o conclamata, ogni malattia rompe un equilibrio. Una diagnosi minacciosa modifica la nostra vita psichica e le nostre relazioni private e pubbliche. L’attesa di una diagnosi ci tiene in ansia e quando arriva porta con sé una gamma infinita di stati d’animo. A seconda della sua gravità e delle possibilità di trattamento, genera sorpresa, sollievo, allarme, impotenza, angoscia, rassegnazione, tristezza, disperazione, depressione. Anche una brutta influenza è una frustrazione, uno scarto rispetto all’idea, all’idealizzazione, di salute come stato di equilibrio e benessere.” Cosi scrive lo psicoanalista Vittorio Lingiardi, descrivendo con estrema lucidità perché non possiamo limitarci a considerare una diagnosi come un’etichetta, una parola.
Anche una diagnosi di diabete, o quella più “light” di prediabete, assume un significato particolare nella vita di una persona, un punto di svolta che può scatenare diversi meccanismi di difesa o di accettazione.
Un percorso a ostacoli verso l’accettazione della diagnosi
Un recente studio ha analizzato il percorso verso una meaningful diagnosis (permettetemi, per rapidità, di continuare con l’inglese) mettendo a confronto le informazioni riportate nel Fascicolo Sanitario Elettronico (la voce del medico) con le narrazioni di pazienti, a cui è stato diagnosticato il diabete di tipo 2 o una forma di prediabete.
Attraverso questa analisi i ricercatori hanno descritto un processo in 5 fasi. La prima fase è l’esigenza, condivisa da medico e paziente, di fare dei controlli, il motivo da cui parte l’indagine che porterà alla diagnosi. Una volta ricevuti gli esiti degli esami, il medico formula la sua diagnosi e la comunica. La fase successiva è lo scambio di informazioni tra medico e paziente (ma anche con tutto il team curante) riguardo alla malattia. Segue poi il processo di attribuzione di significato da parte del paziente, fondamentale per l’accettazione della diagnosi e per passare allo step finale: la gestione della malattia.
Durante tutto questo processo possono verificarsi delle “fratture comunicative” che causano fraintendimenti, confusione e frustrazione. In ciascuna di queste fasi sono importanti sia le opinioni, le credenze individuali e la storia del paziente, sia la qualità della comunicazione medico-paziente.
Per esempio, nella prima fase, quella in cui scattano gli accertamenti clinici, la situazione è molto differente quando l’esigenza emerge da una storia familiare di diabete o da altri potenziali problemi nel controllo glicemico o quando lo screening rientra negli screening di routine o da questioni di salute non direttamente collegate al diabete. Nel primo caso infatti c’è un’aspettativa che predispone alla comprensione/accettazione della diagnosi: nei casi di familiarità, la familiarità si estende anche alla conoscenza, almeno parziale, del diabete. Nel secondo caso la diagnosi potrebbe coglierci di sorpresa, rivelarsi qualcosa di completamente estraneo alla nostra vita quotidiana.
Nella seconda fase, il medico valuta gli esami e definisce la diagnosi. In questa fase potrebbe succedere che vengano a mancare spiegazioni su alcuni dei risultati degli esami, che lasciano perplessità nel paziente. Per quanto riguarda il prediabete, la scelta del medico di definirlo pre-diabete o con altre etichette può avere un impatto differente, lasciando talvolta nell’incertezza e nella confusione sul da farsi.
La fase di trasferimento delle informazioni mediche è descritta secondo le modalità utilizzate negli Stati Uniti (paese in cui si è svolto lo studio) per la gestione del fascicolo elettronico. Anche se nel nostro paese la condivisione delle informazioni, sia con il team curante sia con il paziente, passa ancora principalmente dalla comunicazione verbale, ci sono alcune criticità che possono interessarci. Per esempio, nelle cartelle elettroniche analizzate è presente un campo, da spuntare con un click, per indicare che il paziente ha compreso e accettato le istruzioni. Il confronto con il racconto dei pazienti ha rilevato che, nonostante la spunta, i pazienti non avevano assolutamente compreso cosa fare in seguito alla diagnosi.
I pazienti hanno descritto tre comportamenti nella comunicazione del medico particolarmente efficaci nel trasferimento di informazione: chiarezza nel contenuto del messaggio e del rischio che il diabete comporta, anche con l’utilizzo di dati e delle azioni da compiere. Una nuova diagnosi, raccontano i pazienti, diventa evidente quando il medico si attiva, per esempio fornendo un glucometro o inviando il paziente a corsi di educazione. Per alcuni pazienti, se il medico non prescrive farmaci o azioni da compiere, la diagnosi resta dubbia.
Elementi problematici nella comunicazione sono individuati nella presenza di messaggi contrastanti tra diversi medici, l’utilizzo del termine prediabete e di un linguaggio ambiguo. Un aspetto interessante rilevato è la contraddizione in alcuni dei casi analizzati tra la diagnosi di diabete di tipo 2 e il racconto dei pazienti, che descriveva una condizione di prediabete.
La fase di costruzione di significato da parte del paziente può essere influenzata da due fattori di dissonanza: la mancanza di una storia familiare di diabete e gli stereotipi sul diabete. Quando il paziente non si identifica con gli stereotipi sul diabete – sovrappeso, dieta sbagliata, scarsa attività fisica – c’è il rischio che non accetti la diagnosi. Insistere su questi aspetti può essere una barriera nella comunicazione.
Superati tutti questi ostacoli, si arriva a una diagnosi sensata e accettata che permette al paziente di prendersi cura di sé e si permette alla relazione medico-paziente di proseguire sui binari dello shared decision making.
Cosa possono fare i medici
Lo studio sottolinea la necessità da parte dei medici di dedicare tempo al dialogo con il paziente, per contrastare gli stereotipi e le convinzioni errate, per verificare la comprensione e l’accettazione della diagnosi o intercettare possibili meccanismi di difesa.
La percezione di un bisogno di cura da parte del paziente è un predittore chiave dell’aderenza al trattamento, insieme all’accordo sulla diagnosi. Inoltre, la percezione del paziente della qualità della comunicazione medico-paziente alla diagnosi di diabete di tipo 2 è associata a un migliore benessere del paziente e a comportamenti di auto-cura.
Una tecnica suggerita è quella del teach-back: il medico non si limita a spiegare al paziente, ma chiede al paziente di ri-spiegare a sua volta e con le sue parole le nozioni appena acquisite, per verificarne l’esatta comprensione. Spiegano i ricercatori: “Chiedendo ai pazienti di descrivere con le loro parole cosa devono fare in risposta a una diagnosi, il medico può aumentare il coinvolgimento del paziente e fare una valutazione della conoscenza del paziente all’interno di un incontro clinico. Questo feedback crea un’opportunità immediata per i medici di intervenire con l’educazione”.
A cura di Francesca Memini
Fonti
- C.J.W. Ledford, et al., Toward a model of shared meaningful diagnosis, Patient Educ Couns (2020)
- V. Lingiardi, Diagnosi e destino, Einaudi 2018