Impressioni mediche in alta quota, 28 settembre 2002
Medico di una spedizione alpinistica in Himalaya, sul tetto del modo, un anno fa non mi sarebbe nemmeno passato per la mente. Poi le occasioni si presentano e bisogna prenderle al volo. Nessuna esperienza, a parte il mio bagaglio personale di anestesista rianimatore. A dire il vero una piccola esperienza con altri colleghi diabetologi in D.I.S.K. 2002 (Diabetici Italiani Sul Kilimanjaro), che mi ha introdotto nel mondo dell’alta quota. Per il resto letture personali, confronto con un amico collega già medico di spedizione himalayana e con gli alpinisti del gruppo con alle spalle esperienze di ottomila. Si parte tutti in forma, tutti entusiasti, nel programma di viaggio sono contemplati dieci giorni di acclimatazione tra i 3500 ed i 4000 metri e infine giungiamo al fatidico campo base avanzato a 5770 metri: e ci scontriamo con l’alta quota. Montagna facile, montagna difficile, tante salite, poche salite, tanti successi, tanti insuccessi sono cose importanti, ma l’alta quota è cosa a parte. Ci sei già stato, ma ogni volta è una cosa nuova, puoi stare benissimo un giorno e malissimo il giorno dopo, acclimatarti nei giorni previsti o metterci una settimana in più, oppure un semplice raffreddore o un banale mal di gola (patologie semplici a dirsi, peraltro qui frequentissime) ti mettono a terra.
Siamo quasi a 5800 metri, l’ossigeno disponibile è meno della metà di quello a livello del mare, l’aria è fredda e secca, ci troviamo insomma in condizioni quasi limite confrontate con quelle a cui normalmente siamo abituati, da cui veniamo 10-15 giorni prima. La cosa importante è non pretendere troppo dal proprio corpo soprattutto nei primi giorni. Non pensare di andare come i tibetani o come gli sherpa che abitano in queste zone da 100.000 anni. Misurare e risparmiare le proprie forze per capire quanto spingersi. Non ci sono attualmente farmaci o pozioni magiche per migliorare la nostra performance, rimane la forza di volontà, la capacità di reagire, sempre però con la consapevolezza di “dove” ci troviamo e quindi con “giudizio” su quello che facciamo. Il “poco” tempo a disposizione è uno dei nemici per esperienze come questa, come pure l’impazienza e la mancanza di adattamento. Da non dimenticare la convivenza con il gruppo, la condivisione delle gioie e dei dolori, degli eventuali problemi del singolo con risposta di tutti per la loro risoluzione. Per i “banali” problemi di salute c’è il medico di spedizione, per i “gravi” problemi di salute il medico fa e deve fare la sua parte, ma il gruppo è altrettanto importante, le decisioni devono essere condivise, ciascuno per il suo ruolo. La presenza del medico (senza presunzione) mi pare sia rassicurante per i membri della spedizione (ci sono molte spedizioni senza medico con magari un bidone di farmaci il cui uso potrebbe anche essere pericoloso in mano di profani e senza le cose importanti come una bombola di ossigeno), almeno si sa che c’è qualcuno che si occupa del problema salute in mezzo alle miriadi di cose necessarie. Magari il più delle volte le pasticche non servono, nel senso che possono non essere indispensabili; quello che forse è più importante è rassicurare, spiegare, parlare per condividere il perché di una decisione soprattutto se si tratta della decisione di “evacuare”. “Evacuare”: parola tabù per un alpinista che magari ha pagato fior fiore di quattrini, o che finalmente ha l’occasione dell’ottomila. Ma cosa vale di più? Ci possono essere mille motivi per non raggiungere la vetta e la salute potrebbe essere uno di questi. Bisogna metterlo in conto. Un pensiero particolare per i diabetici, visto che siamo una spedizione nata per iniziativa di alpinisti diabetici. Conosco da tempo questi ragazzi/e, ma continuo ad ammirarli sempre di più per la loro determinazione. Loro sono qui per vivere “come gli piace nell’ambiente che più gli piace” e per questo aggrediscono la loro malattia. Certo non senza sacrifici, devono avere quel “terzo occhio” su tutto quello che fanno, su quello che mangiano, sulle loro condizioni di salute perché sbagliare vuol magari dire compromettere la giornata, il momento, la salita se non avere problemi più gravi. Un pensiero in più in ambiente già così difficile. Forse per la loro malattia l’alta quota non sarà un toccasana (e sicuramente non è alla portata di tutti i diabetici), ma per il loro spirito lo è ed ora stanno dimostrando che si può fare attraverso una conoscenza di sé stessi, del proprio metabolismo, delle proprie reazioni che nessun medico gli potrà insegnare. Ciascuno nella spedizione porta la sua esperienza, la sua creatività, la sua unicità per contribuire al successo, successo che certamente è raggiungere la cima, ma anche tornare a casa “tutti interi”, soddisfatti comunque sia andata, più amici, più ricchi dentro, tornare a casa migliori di quando siamo partiti.
dr.ssa Maria Anna Veronese Medico della Spedizione A.D.I.Q
Per conoscere meglio gli alpinisti di ADIQ, visita il sito dell’Associazione: www.adiq.org