Kathmandu, 9 ottobre 2002

Kathmandu, 9 ottobre 2002

Raccontarvi il viaggio di ieri, quindici ore di contrasti tra altipiani, valli, dirupi e umanità varia, a bordo di un bus, senza l’ausilio della fotocamera e seduti comodamente, affacciati alla finestra, in una camera d’albergo a Kathmandu, non è cosa facile. Ma quale modo migliore per chiudere degnamente questo diario di viaggio, quasi un filo invisibile, telematico, che ci ha tenuto collegati per 40 giorni di avventure straordinarie tra le montagne che dividono il Nepal dal Tibet? Ci eravamo lasciati al Campo Base Avanzato, ancora in Tibet, un paio di giorni fa. La discesa fino a Tingri, primo centro abitato, è una storia a sé e facilmente riassumibile: poco meno di 30 chilometri di allucinante morena, rigorosamente a piedi e seguiti dalla nostra personale carovana di yak, fino al Campo Base Cinese, 4800 metri. Poi via di corsa al villaggio in groppa ad un inaspettato pullmino che ci raccoglieva al termine della prodigiosa camminata, condita non solo di sassi, ma pure di acqua (un paio di acrobatici guadi) e di una piccola bufera di neve. La sera a Tingri, dentro a una povera locanda, eravamo felici come una mandria di giovani puledri rientrati nella loro stalla dopo un mese di scorribande per selvagge praterie.
Ed è proprio delle praterie, della sconfinata steppa che abbiamo attraversato l’indomani, che vorrei un po’ parlarvi, cercare di descrivere con parole che noi tutti sappiamo a volte inadeguate, specie di fronte a quelle cose della natura che l’occhio e la mente trovano incommensurabili. Alle 6 della notte di ieri (il sole qui tarda a sorgere), assonnati e ancora lerci di polvere del giorno precedente (siamo andati a letto vestiti come eravamo), già solcavamo con il nostro intrepido pullmino gli ultimi lembi dell’altipiano tibetano, deserto, prima che esso si tuffi nella turgida evanescenza della foresta nepalese. Non saprei propriamente come descrivere queste aride e assolate lande, dove il filo d’erba è un ornamento raro per tenere unita la terra, rossa, come fossimo su Marte, o si tinge dell’ultima sfumatura del marrone, una caotica e primordiale ondulazione di sassi, indefinita, che ti avvolge lo stomaco per paura di soccombere nel momento in cui la linea della strada si butta a capofitto per discese credute possibili solo ai mezzi più arditi, le jeep, e da noi affrontate artigliati ai sedili di un veicolo da alcuni definito cittadino!! E via, giù da un passo di 5200 metri. Stupiti, attoniti, davanti a una natura superba le cui spinte sotterranee hanno fatto emergere la più grande catena della Terra, l’Himalaya, sui cui fianchi gli abitanti degli ultimi villaggi tibetani, mimetici al paesaggio, hanno disegnato irregolari campi di lavoro, recinti per il bestiame e altre linee, barlumi di vita e organizzazione in luoghi che per noi tutti, uomini della comodità superflua, non solo risulterebbero inospitali, ma probabilmente letali.
Nel sopraggiungere a Zanghmu, ultima città di confine prima del Nepal, il solito irritante guazzabuglio tra tradizione tibetana e imperialismo cinese ci dà l’ultimo saluto per non scordare la situazione politica. Le guardie di frontiera, cinesi, sono più gentili del solito. Meglio un turista fuori che uno dentro. A Kodari, primo villaggio nepalese, ci fermiamo per una pausa e per cambiare il mezzo. Che casino, un gran casino, il Nepal, e, apparentemente, una gran povertà. Non c’è cosa che sembra avere un termine. Apparentemente. La sporcizia, il frastuono, il viavai di greggi e genti, una casa… Ti viene da pensare alla “civiltà cinese” appena lasciata, ma solo per un momento. Meglio la libertà e il casino di un popolo che una libertà coatta, di facciata, di regole imposte. E giù allora per la valle più precipite e lussureggiante che mai ci è capitato d’incontrare in vita nostra. Infinita e paurosa. Il nostro sedere era ormai l’unica parte del corpo che parlava. Dolorante. Siamo ancora in corriera, ma stavolta oserei definirla di linea. Avete presente la corriera della vostra città, molto più scassata e stracarica di materiale (lo portava 28 yak), di noi e di un manipolo di nepalesi? E giù, giù, per una pista tagliata sul fianco di una valle scavata da un torrente arcigno, cattivo. Una valle profondissima. Una Valsugana all’ennesima potenza. Con una strada dalle mille cascate e dalle mille frane, appena tappezzate, incisa sulla parte sinistra idrografica, a non si sa a quale altezza tanto sono alte le montagne che sputano massi e fango sopra le nostre teste. E via, per sollevare incredulo lo sguardo ad ogni curva, un infinito crescere di stupore sulle nostre facce, paurose, gioiose, sfinite, eccetera…
E qui mi fermo, a Kathmandu, alla finestra del nostro albergo. A respirare, tranquillo, appagato, per darvi appuntamento al prossimo viaggio. Namasté.

Alberto Peruffo e tutto il gruppo ADIQ

Per conoscere meglio gli alpinisti di ADIQ, visita il sito dell’Associazione: www.adiq.org