COME FARE LA MIGLIOR SCELTA TERAPEUTICA
L’ora dell’insulina
Quando iniziare la terapia insulinica nel diabete di tipo 2? Un confronto tra i vari studi disponibili consente di capire quando diventa necessaria e quando è preferibile ricorrere ai farmaci ipoglicemizzanti
Nello scorso numero di “Tuttodiabete” abbiamo analizzato il nuovo algoritmo di terapia del diabete di tipo 2 formulato consensualmente dalla Associazione americana per il diabete (Ada) e dalla Associazione europea per lo studio del diabete (Easd). Lo schema prevede che il primo farmaco da utilizzare debba essere la metformina, o, in sostituzione di questa, in caso di intolleranza, un glitazone, mentre, nel caso di insuccesso di questo primo approccio terapeutico, si lascia libertà di scelta sull’aggiunta di una sulfonilurea, di un glitazone o della stessa insulina. Questa viene poi riproposta a più livelli laddove si riscontri il fallimento della terapia ipoglicemizzante orale.
Un recente studio condotto nella Repubblica cinese riapre la controversia di quanto precoce o viceversa ritardata debba essere l’introduzione della terapia insulinica nel trattamento del diabete di tipo 2 e introduce un concetto nuovo, consistente nella raccomandazione, suffragata dai loro dati sperimentali, di instaurare, precocemente, in ogni caso di nuova diagnosi di diabete di tipo 2, un trattamento insulinico intensivo transitorio, col fine di ottenere una rapida normalizzazione della glicemia.
Lo studio Ukpds ha chiaramente dimostrato che, indipendentemente dal tipo di trattamento eseguito, soltanto dietetico o insulinico o ipoglicemizzante orale, la storia naturale del diabete è caratterizzata da un inarrestabile, continuo deterioramento del controllo metabolico, secondario a una perdita progressiva della funzione beta-cellulare. Infatti, a prescindere dalla causa prima che determina la perdita della funzione e della massa beta-cellulare, è l’incremento stesso della glicemia ad accentuare il danno delle cellule beta. La glicotossicità si manifesta fin dalle fasi iniziali del diabete con la perdita della fase precoce della risposta insulinica allo stimolo glucidico che si manifesta già con valori di glicemia a digiuno superiori a 115 mg/dl.
Scopi e risultati di uno studio cinese
Weng e collaboratori (Lancet 2008; 371: 1753-1760) hanno eseguito uno studio clinico randomizzato, sottoponendo 382 pazienti con diabete di tipo 2 di nuova diagnosi, di età variabile da 25 a 70 anni, a un trattamento intensivo, mediante terapia insulinica -con infusione continua sottocutanea o iniezioni multiple di insulina basale e ad azione pronta- o ipoglicemizzante orale, in ogni caso con l’obiettivo di giungere, quanto prima possibile, alla normalizzazione della glicemia. Il trattamento veniva interrotto dopo che la condizione di normoglicemia era stata mantenuta per due settimane. Successivamente, la terapia farmacologica è stata sospesa e tutti i pazienti sono stati trattati solo con dieta ed esercizio fisico. L’obiettivo primario dello studio era quello di stabilire la durata della remissione del diabete e la percentuale di remissione dei tre gruppi di soggetti dopo un anno dalla insorgenza della malattia. Tutti i soggetti sono stati anche sottoposti, prima e al termine del breve ciclo di trattamento farmacologico, e dopo un anno dalla prima osservazione, a un test di tolleranza venosa del glucosio per la valutazione della risposta glicemica e insulinemica.
I risultati dell’indagine testimoniano che, in questo contesto, la terapia insulinica è più efficace della terapia orale nel conseguire e mantenere nel tempo la remissione del diabete. Infatti, i pazienti trattati con insulina per via infusionale o iniettiva hanno conseguito la normalizzazione della glicemia rispettivamente nel 97 e nel 95% dei casi, dopo un tempo di trattamento rispettivamente di 4 o 5,6 giorni, mentre i pazienti trattati con ipoglicemizzanti orali hanno conseguito lo stesso obiettivo nell’83% dei casi e in un tempo più lungo di 9,3 giorni. Ma ciò che più conta è che, a distanza di un anno dalla diagnosi e dall’inizio del trattamento, i pazienti trattati con insulina erano ancora in remissione nel 51 e 45% dei casi, mentre quelli trattati con ipoglicemizzanti orali erano in remissione solo nel 26% dei casi. Inoltre, analizzando la risposta insulinica acuta alla infusione di glucosio di tutti i pazienti ancora in remissione a distanza di un anno, si è rilevato che il recupero della fase precoce della risposta insulinica era mantenuto dopo un anno nei pazienti trattati con insulina, ma non in quelli trattati con ipoglicemizzanti orali. Inoltre, solo con l’insulina è stato possibile ottenere un miglioramento della qualità della secrezione insulinica indicata dalla riduzione del rapporto proinsulina/insulina.
Un confronto tra le terapie
Questo studio si presta a diverse considerazioni. Innanzitutto, conferma quanto era stato osservato anche in precedenti ricerche, che, analogamente, avevano dimostrato come una terapia insulinica intensiva eseguita per un breve periodo era in grado di restituire una normale funzione beta-cellulare e quindi una remissione del diabete per un lasso variabile di tempo. Un aspetto di novità di questo studio, rispetto ai precedenti è, tuttavia, l’aver messo a confronto la terapia insulinica con la terapia ipoglicemizzante orale impiegata dagli autori e consistente per lo più nella associazione di metformina e di gliclazide, dimostrando la superiorità della prima rispetto alla seconda. In entrambi i casi, è stato eliminato il ruolo della glicotossicità e si è perciò ottenuto un parziale e temporaneo recupero della funzione beta-cellulare e, quindi, una remissione transitoria del diabete, sia pure di diversa durata, con i due tipi di trattamento. Pertanto, la maggiore efficacia dell’insulina deve essere attribuita a effetti che prescindono dalla normalizzazione della glicemia.
Uno di questi effetti può essere riconosciuto nella quiescenza funzionale delle cellule beta, ottenuta con l’insulina e non con la terapia orale, che, nella maggior parte dei casi trattati, comprendeva, insieme alla metformina, anche una sulfonilurea, la gliclazide, un agente insulino-stimolante e, in quanto tale, capace di indurre un ulteriore stress funzionale e non una condizione di riposo della beta-cellula.
Al di là del “riposo” beta-cellulare, altre azioni dell’insulina possono tuttavia intervenire in questo processo. E’ noto infatti, per esempio, che l’insulina svolge un ruolo anti-infiammatorio e che la stimolazione del recettore insulinico si traduce in segnali intracellulari diretti a favorire la crescita e la sopravvivenza delle beta-cellule.
Quando il farmaco è meglio
I dati raccolti dagli autori, per quanto di notevole interesse, non sono tuttavia tali da legittimare, nella loro conclusione, l’invito a praticare una terapia insulinica intensiva nei pazienti con diabete di tipo 2 di nuova diagnosi. Infatti, nella impostazione del loro studio, non hanno valutato il ruolo potenziale delle nuove classi di farmaci quali i glitazoni e le incretine che riconoscono meccanismi di azione assai diversi da quelli delle sulfoniluree.
Importanti studi internazionali come il PROactive e l’Adopt hanno dimostrato la possibilità di ottenere con l’impiego, rispettivamente del pioglitazone e del rosiglitazone, una riduzione stabile della glicemia per periodi lunghi di anni. Entrambi i farmaci, rimuovendo la causa prima che condiziona la comparsa del diabete di tipo 2 e cioè la resistenza insulinica, consentono il recupero della funzione beta-cellulare e la sua conservazione nel tempo. La loro efficacia è tanto maggiore quanto più precoce è il loro impiego nella storia naturale della patologia. D’altro canto, le incretine o i farmaci incretino-mimetici (exenatide, inibitori delle DPP-IV) posseggono la capacità di stimolare il trofismo e la stessa rigenerazione delle cellule beta, avvalorando il concetto della loro potenziale capacità di indurre una remissione del diabete.
Pur mancando, al momento, studi di confronto di queste nuove classi di farmaci con l’insulina, è lecito presumere che il loro impiego precoce nella terapia del diabete di tipo 2 possa sortire gli stessi effetti immediati e a distanza di quelli dimostrati per l’insulina nel lavoro citato e che, pertanto, l’impiego dell’insulina debba essere riservato a fasi più avanzate della malattia caratterizzate da una perdita non più recuperabile della secrezione insulinica endogena.
(P.B.)