Qualche settimana fa, intervistando Morris, papà di Mia, una bimba il cui esordio è avvenuto all’incirca a tre anni, noto che ripete un paio di volte: “La Tosca è stata fondamentale… Senza la Tosca non ce l’avremmo fatta…”. Lo interrompo, allora, e gli chiedo: “Scusami. Ma chi è la Tosca?”.
“È la diabetologa di Mia”, mi risponde, e sento che dall’altra parte del telefono, sorride.
Il ritratto che ne segue, attraverso le sue parole, mi lascia stupefatta; ma la parte che più mi incuriosisce è proprio quel modo amicale e informale con cui noi emiliani e romagnoli trattiamo il nome proprio femminile, rafforzandolo con un articolo determinativo, che presuppone l’appartenenza della suddetta persona al nostro quotidiano e ai nostri affetti, e che è esattamente quello che sta facendo Morris. Non “dottoressa”, non “diabetologa”: la Tosca.
Decido, quindi, di intervistarla. Mi approccio via mail con quella sorta di soggezione che non mi appartiene, ma che appare automaticamente ogni qualvolta mi accingo a interloquire con un medico; e che reputo essere un retaggio antico, inconscio, che forse ci coinvolge tutti. Perché in fondo, sappiamo che siamo di fronte a qualcuno che conosce la vita e che tra l’altro, spesso, ha anche gli strumenti per salvarla.
La sua risposta mi lascia secca. A dispetto dei miei “Gentile”, “le sarei grata”, “quando potremmo prendere un appuntamento?”, mi risponde con un “Ciao Patrizia!”, che illumina lo schermo del mio Mac, mandando a gambe per aria le mie formalità da quattro soldi.
È impossibile non cedere al “tu”, abbandonando un “lei”, che ora sembra davvero ridicolo, perché quella che leggo è la risposta che avrebbe potuto darmi un’amica di sempre, con la quale ci si sta mettendo d’accordo per un aperitivo.
Qual è il motivo per cui mi dilungo su questi particolari, che forse possono sembrare privi di valore?
Lo faccio, perché, invece, a mio parere, di valore sono pieni. E raccontano, ancora prima che io possa sentire la sua voce, e parlare direttamente con lei, che questa donna sa accorciare le distanze, fino a farle diventare irrisorie, nulle.
E non posso fare a meno di pensare cosa significhi questo per un bambino, al quale va comunicato che la cosa per cui è stato ricoverato si chiama diabete, e che ora ci saranno dei cambiamenti nella sua vita, da quel giorno in avanti.
Io credo che quello, ad esempio, sia uno di quei momenti in cui annullare le distanze sia tutto. Scegliere di non essere “la dottoressa”, ma “la Tosca” sia tutto.
E quando arriva il giorno in cui finalmente la intervisto al telefono, è la prima cosa che mi dice: “Con un bambino cronico, ti devi posizionare di fianco. Né dietro, né davanti. Io insegno a loro, ma allo stesso modo imparo. Tantissimo. Tutti i giorni. Faccio tesoro di quello che mi viene detto dai bambini e dai genitori, perché alla fine sono loro che hanno a che fare col diabete 24 ore al giorno. Sanno tutto dei carboidrati, dei microinfusori, sono informati su qualsiasi tipo di presidio”.
E continua: “A un bambino devi dire sempre la verità. Mi chiedono: ‘Ma andrà via?’ e io rispondo, che no, non andrà via, ma voglio che sappiano anche che possono fare tutto quello che facevano prima e che la ricerca e gli studi avanzano costantemente, e io confido moltissimo in questo. E anche queste sono verità.
Quando ho iniziato il mio lavoro di diabetologa pediatrica, mi sono chiesta: se si trattasse di mio figlio cosa farei? E la risposta è stata, lo porterei a Milano, che presenta un polo di eccellenza per la cura del diabete. Quindi mi sono detta, benissimo, allora voglio che lo diventi anche Cesena. E mi sono data da fare”.
E darsi da fare, vi assicuro, è tutt’altro che un eufemismo. Me lo racconta con una pronuncia romagnola travolgente, con entusiasmo e passione, come si racconta di una storia d’amore, che a tratti ha fatto arrabbiare, ha deluso, perché non sempre è andata come ci si aspettava, ma per la quale non si può smettere di combattere, verso la quale non si può smettere di sperare.
Perché in mezzo ci sono loro, quelli che chiama per tutto la durata dell’intervista, “i miei bambini”, e che sono gli esseri umani verso i quale ha dedicato, per farla breve, un’intera vita.
“Sono stata una delle primissime a sostenere l’assoluta importanza del calcolo dei carboidrati. Se permetti al bambino di non avere una dieta fissa, privata di molti alimenti, togli un componente di depressione non indifferente. Poi, i bambini, all’esordio stanno in ospedale non più di 3 giorni. È importante un ricovero corto che non abbia un forte impatto. I genitori vengono formati, ma è verso l’indipendenza del bambino che bisogna indirizzarsi. Una grande palestra, in tal senso, sono i campi scuola. Li sponsorizza la regione e sono momenti fondamentali. I pasti sono serviti a buffet e i ragazzi devono scegliere i cibi e conteggiarli. Questo li rende autonomi. Si confrontano con gli operatori medici presenti al campo, perché il diabete è un lavoro d’equipe e non riguarda mai soltanto il diabetologo, ma il nutrizionista, lo psicologo, gli infermieri…”.
Mi racconta poi del Progetto Scuola creato prima a Cesena e poi a Ravenna: “Bisogna lavorare per un sistema che demedicalizzi il bambino. In che modo? Formando gli insegnanti, le maestre. Eliminare la figura dell’infermiere che viene a fare l’insulina, perché questo toglie automaticamente il bambino dalla normalità, a cui invece deve tendere. E l’importante è avere sempre un piano B. Nel caso in cui le maestre non ne vogliano sapere, spesso chi viene in aiuto sono le bidelle e i bidelli. Ma anche su questo io mi batto, perché quando incontro un docente che afferma: ‘Non posso farlo’, io rispondo: ‘Potere è una cosa, volere è un’altra. Tu puoi, se io ti formo’. Ed è essenziale creare un cordone tra sanità e territorio, tra sanità e scuola.
E anche per quanto riguarda la mensa, abbiamo un dietista che conteggia il pasto in termini di carboidrati e quindi il bambino con diabete mangia lo stesso dei suoi compagni”.
Quello che viene messo in atto è un vero e proprio Piano Terapeutico Assistenziale, che inizia con l’esordio del diabete e che continua durante la scuola.
È essenziale che ci sia un infermiere sul territorio che si occupi della formazione nelle scuole e che possa essere la persona con la quale la scuola e le famiglie dialogano. È presente a Cesena, ma sto lavorando affinché lo sia anche a Ravenna. Ci devo arrivare prima della pensione”.
Sì, perché si avvicina la pensione anche per lei, per la dottoressa Tosca Suprani, diabetologa pediatrica a Cesena e a Ravenna, che dice di sé stessa di avere un caratteraccio, di essere un ariete che non molla finché non raggiunge l’obiettivo, e che per questo – e non è difficile crederle – si è inimicata più di una persona. Ma che non poteva fare altrimenti, non poteva dedicare meno tempo – anche a discapito della sua vita privata e famigliare – non poteva accontentarsi di un metodo obsoleto che faceva sentire i “suoi bambini” diversi dagli altri, non poteva abbandonare una famiglia che si confrontava con l’esordio del diabete di un figlio senza formare una catena di famiglie che sapessero a loro volta sostenerla, non poteva, perché persone come lei, semplicemente, non possono.
E privandosi di ogni titolo, di ogni qualifica, di ogni orpello, acquistano, invece, un articolo determinativo nei cuori di coloro che le incontrano.
A cura di Patrizia Dall’Argine