La glicemia amica del cuore

Aggiornamento

Gli studi Advance e Accord

La glicemia amica del cuore

Due importanti ricerche, presentate al congresso della Società americana di diabetologia Ada, aiutano a individuare gli obiettivi terapeutici ottimali per prevenire le complicanze cardiovascolari
 

Si è svolto a San Francisco, California, dal 6 al 10 giugno 2008, il 68° Congresso della Società americana di diabetologia (Ada, American diabetes association). Molte sono le novità emerse durante il convegno; di grande rilievo i risultati della sperimentazione di nuovi farmaci, ma un interesse ancora maggiore lo ha suscitato la presentazione delle conclusioni di due grandi studi cominciati anni orsono: lo studio Advance e lo studio Accord.

Controllo standard e trattamento intensivo

Lo studio Advance (Action in Diabetes and Vascular Disease: Preterax and Diamicron Modified Release Controlled Evaluation) è il più grande studio dedicato al diabete, avendo arruolato ben 11.140 pazienti con diabete di tipo 2 in 215 centri distribuiti in 20 Paesi. Tutti i pazienti avevano una età superiore a 55 anni e avevano contratto il diabete dopo i 30 anni di età. Fra i criteri di inclusione nello studio c’era una storia precedentedi malattie macro o microvascolari o almeno un altro fattore di rischio cardiovascolare.

I pazienti sono stati sottoposti a una strategia mirata a conseguire alcuni un controllo standard, altriuno stretto controllo metabolico con un valore di emoglobina glicata (HbA1c) pari o inferiore a 6,5%. Il trattamento ipoglicemizzante consisteva nella somministrazione di gliclazide a rilascio modificato (30-120 mg/die), con l’aggiunta eventuale di altri farmaci ipoglicemizzanti, se necessari per raggiungere l’obiettivo terapeutico. In particolare, circa 5.500 pazienti sono stati avviati verso un controllo intensivo e altrettanti a un controllo standard.

Ciascuno dei due gruppi ha inoltre ricevuto -con procedura randomizzata- un trattamento con un ACE-inibitore, il perindopril, associato a un diuretico, l’indapamide, con l’intento di ridurre la pressione arteriosa, ma senza tener conto della presenza o meno di ipertensione arteriosa o del contemporaneo impiego di altri farmaci anti-ipertensivi appartenenti a classi diverse. I risultati dello studio dedicato alla pressione arteriosa sono stati pubblicati lo scorso anno e hanno dimostrato che, indipendentemente dal valore iniziale della pressione arteriosa, il trattamento ipotensivo ha determinato una riduzione significativa del rischio relativo di morte da causa cardiovascolare del 18%.

L’obiettivo della parte dello studio dedicata al controllo metabolico era quello di stabilire se una quasi normalizzazione della glicemia e della emoglobina glicata -i precedenti studi, Dcct, Ukpds, avevano mirato a un obiettivo meno ambizioso, un valore uguale o minore di 7%- era in grado di ridurre l’incidenza di eventi cardiovascolari (morte di origine cardiovascolare, infarto e ictus non fatali) e di complicanze microvascolari (nuova insorgenza o peggioramento di una nefropatia preesistente, come indicato dall’aumento dell’escrezione urinaria di albumina, dal raddoppio del livello iniziale di creatinina sierica, dalla necessità di una terapia sostitutiva mediante trapianto o emodialisi o dalla morte per cause renali; sviluppo di una retinopatia proliferante, edema maculare, cecità o necessità di laser-terapia).

Dopo un periodo di osservazione media di 5 anni, i pazienti trattati in forma intensiva hanno conseguito una emoglobina glicata di 6,5% contro un valore di 7,3% nel gruppo in trattamento standard. Al miglior controllo metabolico ha corrisposto una riduzione significativa della incidenza di eventi maggiori microvascolari, ma non di complicanze macrovascolari.

Il controllo intensivo era infatti associato a una significativa riduzione di eventi renali. Nei confronti del trattamento standard, il trattamento intensivo ha prodotto una riduzione del 21% del rischio di peggioramento di una nefropatia esistente (sviluppo di macroproteinuria) o di insorgenza di una nuova nefropatia (comparsa di microalbuminuria). Parallelamente, si è assistito alla riduzione della incidenza di insufficienza renale grave con necessità di terapia sostitutiva.

L’assenza di effetti preventivi sulle complicanze cardiovascolari può essere attribuita al periodo relativamente breve di osservazione per questo tipo di complicanze. In effetti, studi precedenti come l’Ukpds, hanno dimostrato come a una riduzione dello 0,7% della HbA1c -non dissimile dalla riduzione dello 0,8% dello studio Advance- si sia associata una modesta ma non significativa riduzione del rischio cardiovascolare durante il tempo di osservazione dello studio. Il monitoraggio successivo dei pazienti, per un tempo più lungo, ha invece permesso di dimostrare che i soggetti trattati in precedenza con una terapia intensiva avevano una incidenza di eventi cardiovascolari inferiore rispetto a quelli trattati con una terapia standard. Analoga osservazione era stata fatta in precedenza anche nello studio Dcct-Edic.

Le insidie dell’iperglicemia

Anche lo studio Accord (Action to Control Cardiovascular Risk in Diabetes) nasce con l’intento di dare una risposta definitiva all’eterno problema del ruolo che l’iperglicemia può avere nel determinare aterosclerosi e, in ultima analisi, complicanze cardiovascolari. Hanno partecipato allo studio 10.251 pazienti con diabete di tipo 2, età media di 62 anni, 38% donne e 62% uomini, con un valore medio di emoglobina glicata di 8,1%. Il 35% dei pazienti aveva già avuto un evento patologico cardiovascolare.

A differenza di Advance, lo studio Accord ha perseguito l’obiettivo ancora più ambizioso di verificare l’effetto di una piena normalizzazione della glicemia sulla insorgenza delle malattie cardiovascolari. A questo scopo, i pazienti sono stati randomizzati in due gruppi, uno assegnato alla terapia intensiva con l’obiettivo di raggiungere valori di emoglobina glicata (HbA1c) inferiori al 6% e l’altro a un trattamento standard con un obiettivo di HbA1c compreso fra 7 e 7,9%, corrispondente a quello di una terapia convenzionale. Di fatto, il gruppo in trattamento intensivo ha raggiunto e mantenuto stabilmente per tutta la durata dello studio un valore medio di HbA1c di 6,4%, con variazioni individuali fra 6,1 e 7%, mentre il gruppo standard si è assestato su un valore di 7,5%, con oscillazioni individuali fra 7 e 8,1%. Fra i due gruppi è stata quindi mantenuta stabilmente, per un periodo medio di 3 anni e mezzo, una differenza di 1,1% nei rispettivi valori di emoglobina glicata. Inoltre, la riduzione della HbA1c è stata ottenuta in tempi molto rapidi, essendosi raggiunto l’obiettivo prefissato nell’arco di 4 mesi.

La scelta del  regime terapeutico è stata lasciata alla libera decisione degli investigatori, che hanno potuto usare ogni farmaco ipoglicemizzante orale e ogni formulazione e regime  di insulina alle dosi ritenute necessarie, pur di raggiungere l’obiettivo desiderato.

Lo studio comprendeva anche due ulteriori obiettivi. Infatti, i pazienti sono stati anche randomizzati a un controllo della pressione arteriosa più stretto (pressione sistolica al di sotto di 120 mmHg) o più blando (pressione sistolica minore di140 mmHg) e anche a un trattamento con fenofibrato o placebo per il controllo della dislipidemia. Mentre questi due ultimi studi sono ancora in corso, l’indagine concernente il controllo metabolico è stata interrotta, dopo un periodo medio di osservazione di 3 anni e mezzo, per una più alta incidenza di mortalità nel gruppo trattato in forma intensiva. Infatti, nel gruppo trattato in forma intensiva, sono stati registrati 257 morti contro i 203 nel gruppo in terapia convenzionale. Una analisi più accurata dei risultati ci mostra che le due curve di mortalità cominciano a divergere già dopo due anni di terapia per raggiungere in seguito una differenza significativa. Parallelamente, si assiste a una minore incidenza, divenuta significativa al termine del periodo di 3 anni e mezzo di osservazione, nel gruppo in terapia intensiva, degli infarti non fatali.

Terapie graduali e fattori di rischio

I risultati degli studi Advance e Accord, almeno in parte inattesi, si prestano ad alcune importanti considerazioni. La prima riguarda il rischio che, secondo lo studio Accord, almeno per una certa quota di pazienti con diabete di tipo 2, può rappresentare una riduzione, per di più assai rapida, della glicemia e quindi della emoglobina glicata fino a raggiungere valori pressoché normali. Non sono ancora chiari i motivi che giustificano l’aumento di mortalità nel gruppo in terapia intensiva, anche se è possibile supporre il ruolo di un maggiore rischio ipoglicemico, di una eventuale non riconosciuta interazione dei vari farmaci impiegati a dosi elevate, della inappropriatezza di alte dosi di insulina -alcuni pazienti erano in terapia intensiva con cinque somministrazioni giornaliere- e, infine, delle specifiche caratteristiche individuali. A riprova di ciò, stanno i risultati dello studio Advance che, con una riduzione più moderata e più graduale della emoglobina glicata, ottenuta con un regime terapeutico non interamente libero ma in parte vincolato all’uso di un singolo ipoglicemizzante orale, non ha riscontrato un aumento della mortalità.

La seconda considerazione è che nello studio Advance, pur indenne da un aumento della mortalità, non si è riscontrato un beneficio significativo per quanto concerne la prevenzione degli eventi cardiovascolari, anche se al termine del periodo medio di osservazione di 5 anni, le due curve che delineano l’andamento degli eventi cardiovascolari maggiori cominciano a divergere. Del resto, anche in Accord, al termine del periodo di osservazione medio di 3 anni e mezzo, prima della interruzione dello studio, è stata registrata, insieme con l’aumento della mortalità, una riduzione della incidenza degli infarti non fatali.

Tutto ciò significa che la correzione dell’iperglicemia contribuisce al contenimento delle complicanze cardiovascolari, ma che questo effetto si verifica in tempi più lunghi e con minore intensità di quanto avvenga per la prevenzione delle complicanze microvascolari, quali la glomerulosclerosi diabetica. La microangiopatia è infatti determinata in maniera prevalente dalla iperglicemia, mentre le lesioni aterosclerotiche hanno una origine più complessa riconducibile alla presenza di molteplici fattori di rischio, quali ipertensione arteriosa, iperdislipidemia, maggiore coagulabilità e infiammazione latente.

I risultati di questi studi ci inducono ad avere, nella terapia del diabete di tipo 2, un atteggiamento più conservativo, con un obiettivo glicemico più moderato di quello perseguito nello studio Accord. Il traguardo di un valore di HbA1c del 7% può essere considerato sufficiente e, in ogni caso, deve essere valutato in rapporto alle condizioni cliniche dei singoli pazienti. A una maggiore compromissione dei vari sistemi organici legata a una storia più lunga e più aggressiva della malattia diabetica deve corrispondere una maggiore cautela nella correzione della iperglicemia.

Ciò che invece non deve mai mancare, nella terapia dei pazienti con diabete di tipo 2, è una pronta correzione di tutti i fattori di rischio associati al diabete, oggi possibile grazie ai molti presidi terapeutici disponibili.

 
Prof. Paolo Brunetti Direttore Dipartimento di Medicina interna Università degli Studi di Perugia