La ricerca non si ferma mai

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La ricerca non si ferma mai

Novità dal congresso dell'ADA

Alcuni recenti studi presentati alle assise dell'Associazione statunitense aggiornano le nostre conoscenze sulle più moderne terapie e sul modo migliore di praticarle

di Paolo Brunetti

Si è svolto a New Orleans, (Louisiana, Stati Uniti) lo scorso giugno, il congresso annuale della American Diabetes Association (Ada), le massime assise da cui si possono desumere tutti i progressi registrati nella terapia del diabete mellito. Riassumiamo alcune delle più interessanti novità segnalate dal convegno.

Attenzione al rischio fratture
Da uno studio presentato dal dottor Merry Pendergrasse e collaboratori della Università di Harvard, è emerso che la terapia con glitazoni (rosiglitazone o pioglitazone) è associata a una maggiore incidenza di fratture ossee rispetto ad altre cure ipoglicemizzanti. Per giungere a questa conclusione gli autori hanno esaminato un database di oltre 13 milioni di persone, individuando tutti i pazienti di età compresa fra 43 e 63 anni affetti da diabete e trattati con un glitazone o con una terapia alternativa a base di metformina, sulfoniluree o exenatide. Nel periodo esaminato, compreso fra il gennaio 2006 e il giugno 2008, i pazienti in terapia con un glitazonico, quasi 70.000, hanno presentato una incidenza di fratture significativamente superiore a quella dei soggetti trattati con altri farmaci. A differenza di studi precedenti, che non avevano registrato un aumento del rischio di fratture nell'uomo, questo studio avrebbe dimostrato che non soltanto le donne, ma anche gli uomini sono più facilmente soggetti a fratture, se in terapia con un glitazone, anche se con un rischio minore rispetto a quello delle donne e in una età più avanzata. Questi rilievi non rappresentano un ostacolo all'uso dei glitazoni, ma invitano a una maggiore cautela negli individui a più alto rischio di fratture.
Lo studio “Act Now" ha dimostrato che il pioglitazone, alla dose di 45 mg/die, ha la proprietà di prevenire il diabete nell'81% dei soggetti con intolleranza al glucosio che hanno ricevuto questo trattamento per 2,6 anni. In precedenza, anche l'altro glitazone, il rosiglitazone, nello studio Dream, si era dimostrato capace di prevenire la comparsa del diabete nel 60% dei pazienti ad alto rischio di progressione  verso il diabete, inclusi nello studio.

La medicina del mostro
Una nuova frontiera nella terapia del diabete di tipo 2 è rappresentata dall'impiego delle incretine o di farmaci incretino-simili da noi già descritti su queste pagine. Uno di questi farmaci è l'exenatide, inizialmente estratto dalla saliva di una lucertola  dell'Arizona, il Gila Monster, analogo per struttura e per attività al GLP-1, e fino a oggi utilizzato nella terapia del diabete di tipo 2, in forma iniettiva, alla dose di due iniezioni sottocutanee al giorno. L'exenatide, al pari del prodotto fisiologico GLP-1 secreto dalla mucosa intestinale, ha la proprietà di stimolare la secrezione di insulina, di mantenere il trofismo delle cellule beta insulino-secernenti e di promuoverne la riproduzione. La necessità di una somministrazione bigiornaliera rappresenta tuttavia un ostacolo non indifferente al suo impiego.
Al congresso dell'Ada, Richard Bergenstal, presidente eletto dell'Associazione statunitense e direttore dell'International Diabetes Center di Minneapolis, ha presentato i risultati di uno studio di confronto di una nuova preparazione ritardo di exenatide somministrata, alla dose di 2 mg, una volta la settimana, con il pioglitazone (45 mg/die) e l'inibitore della DPP IV sitagliptin (100 mg/die). L'exenatide si è rivelata più efficace del pioglitazone e del sitagliptin nel determinare una riduzione della emoglobina glicata e, inoltre, una quota significativamente maggiore di pazienti trattati con exenatide ha raggiunto valori di emoglobina glicata inferiori a 7 e a 6,5%. Alla maggiore efficacia ipoglicemizzante, l'exenatide aggiunge anche la capacità di ridurre, anziché aumentare, il peso corporeo, come di regola avviene con altri modelli di terapia, che si tratti di glitazoni, di sulfoniluree o di insulina. L'exenatide presenta tuttavia un inconveniente, rappresentato dalla nausea, che tende peraltro a ridursi nel corso del tempo.

A difesa della carotide
Nel congresso di New Orleans, il dottor Peter D. Reaven del Phoenix Veterans Affairs Health Care System in Arizona ha presentato i risultati di un sottostudio di Act Now, dedicato all'influenza del pioglitazone sullo sviluppo della aterosclerosi. In particolare, è stato dimostrato, su 393 soggetti randomizzati a pioglitazone o a placebo, che il trattamento attivo ha rallentato del 38% l'incremento annuo dello spessore intimo-mediale della carotide, ritenuto un valido indice di misura della gravità della aterosclerosi e che questo effetto si è mantenuto inalterato per tre anni. Un aspetto interessante di questa ricerca è che il risultato protettivo del pioglitazone nei confronti della aterosclerosi si è mantenuto anche dopo che sono stati eliminati dal calcolo i soggetti che, nel corso del periodo di osservazione di quasi tre anni, avevano sviluppato il diabete. Ciò significa che le proprietà antiaterogene del farmaco non sono dovute al suo effetto ipoglicemizzante, ma agli effetti esercitati direttamente sui fattori pro-infiammatori e pro-trombotici, collegati, al pari dell'iperglicemia, con la resistenza insulinica.

Per un ottimale controllo della glicemia
INTENSIVO, MA NON TROPPO

In uno studio clinico randomizzato e controllato, pubblicato recentemente sul New England Journal of Medicine (Marzo 2009, Vol. 360, pag. 1283), è stata confrontata, su oltre 6000 pazienti ricoverati nelle unità di terapia intensiva, mediche e chirurgiche, di 42 ospedali di Australia, Nuova Zelanda e Canada, l'efficacia di un controllo glicemico più o meno stretto sulla incidenza di complicanze e sulla mortalità a 90 giorni dall'ingresso. Nei pazienti sottoposti a un regime terapeutico intensivo, l'obiettivo glicemico, da raggiungere con la terapia insulinica infusionale, era compreso fra 81 e 108 mg/dL, mentre la terapia convenzionale prevedeva valori di glicemia inferiori a 180 mg/dL. Dallo studio è emerso che i pazienti sottoposti a una terapia intensiva presentavano una mortalità significativamente superiore (27,5%)  a quella dei pazienti in terapia convenzionale (24,9%), con un aumento del rischio relativo del 14% e con una prevalenza, rispetto al gruppo di controllo, di mortalità cardiovascolare. Il risultato, in contrasto con quanto acquisito in studi precedenti, è stato attribuito dagli autori alla più alta incidenza di ipoglicemia.
Ancora una volta si ribadisce quindi il concetto che, nella conduzione della terapia insulinica, si deve prendere in considerazione la particolare fragilità dei soggetti da trattare. La normalità della glicemia è certamente un fattore di garanzia per la prevenzione delle complicanze in pazienti criticamente ammalati, ma una terapia condotta con eccessiva rigidità, con l'obiettivo di normalizzare la glicemia partendo da valori elevati, nel modo più completo e rapido possibile, può determinare effetti negativi, se non si tiene conto contemporaneamente del rischio rappresentato, particolarmente nei soggetti più fragili, dalla possibile comparsa di episodi ipoglicemici.