Arrivati a questo periodo dell’anno, dove vivo io – un luogo che può essere facilmente riassunto con l’immagine dei balloni di fieno che abbracciano la campagna, rendendola finalmente formosa e tridimensionale, con un’afa di cicale costante, coerente e laboriosa, e con piccoli miracoli notturni che si chiamano lucciole – è tempo di bilanci.
Almeno, io la vedo così. Che è ora che devo fare dei bilanci e non a fine dicembre, dove tutto è chiuso, inestricabile e coperto. Ora, che il tempo è tempo lento e ovattato, posso pensare alle persone che ho intervistato quest’anno. Alla meraviglia che si svela ogni volta che qualcuno inizia a tratteggiare le linee della propria storia. Alla portata del patrimonio che ti mette nelle mani, e del quale, in qualche modo, diventi custode e forse anche responsabile.
Cosa saremmo senza storie, proprio non lo so. Ma di certo si tratterebbe di una mancanza che ha a che fare con l’identità, con le radici e con la salvezza.
Oggi penso a due donne. A Irene e a Silvia.
Due mamme. Due approcci alla vita. Inevitabili differenze, inaspettate analogie.
Se non avete letto le loro storie, fatelo. Per me è stato importante, intenso e ispirante ascoltarle.
Irene è la mamma di Jaume. Silvia è la mamma di Alessio.
Jaume ha avuto l’esordio a 10 anni, Alessio a 24 mesi. Diabete di tipo 1, che tocca ciò che più è amato.
Una vita da ritrovare, da comprendere, con la quale fare la pace. Rialzarsi, cadere, rialzarsi ancora. Cadere. Rialzarsi ancora.
Le mamma, lo sappiamo, si rialzano ancora. Si rialzano sempre.
Le ho contattate, perché, in quest’ultimo periodo credo sia necessario parlare di tecnologia e diabete. Di come i dispositivi cambino la vita. Di com’è cambiata la loro.
In particolare ho fatto domande sul sensore. E ho trovato davvero interessanti le varie sfaccettature emerse dalla medesima esperienza.
Le riporto fedelmente così come mi sono state espresse; e le ringrazio di cuore, per il loro di cuore, aperto nella condivisione di una dimensione privata a favore di una dimensione pubblica, che possa far bene a molti.
Mi racconti la vita prima e dopo il sensore?
Silvia: Alessio ha avuto l’esordio a 24 mesi. I primi tempi li abbiamo fatti senza sensore. Misuravamo la glicemia pungendo le dita. Lui era piccolino e non ci sapeva dire come stava e quindi la misuravamo molto spesso – anche troppo spesso probabilmente – ma era molto instabile. Passava da un iper a un ipo in pochissimo tempo. Ci ritrovavamo a fare anche 15, 16 glicemie, nelle 24 ore, giorno e notte, proprio perché non riuscivamo a gestirlo. Nel momento in cui è arrivato il sensore le cose sono un po’ migliorate, anche se i primi sensori non erano precisissimi. Davano un’idea sull’andamento, ma a volte sbagliavano in pieno. Poi col passare degli anni i sensori sono diventati sempre più precisi (l’indice di accuratezza si chiama MARD).
La cosa è migliorata, anche perché, col tempo, Alessio ci dava conferma di come si sentiva. Abbiamo imparato a riconoscere la curva a forma di V che è tipica dello schiacciamento (ovvero di quando Alessio dormiva sopra il sensore), quindi abbiamo capito che quei risultati non erano veritieri. Col sensore che abbiamo da un anno siamo molto sereni. È molto accurato. Adesso fa pochissime glicemie sulle dita, solo quando cambiamo il sensore e in caso di ipo, per avere conferma, soprattutto quando dorme. Ci dà molta tranquillità.
Ora che va a scuola ed è solo nella gestione del diabete, per me è importante avere un sensore perfettamente funzionante. Poi, io a casa lo vedo dal telefono e posso stare tranquilla. Durante l’attività sportiva è una manna dal cielo. Vedi in tempo e correggi in tempo, prima che diventi una ipo grave.
Irene: La vita prima è una vita più comoda, più facile. Nel senso che, non sapendo, non patisci. Non conoscendo l’andamento costante della glicemia e non essendo consapevole del tempo in range è come vivere un po’ al buio. Non sai in che contesto sei, dopo un po’ ti ci abitui e così è più facile. Il sensore è estremamente invadente. Suona spesso, richiede calibrazioni. La vita senza è paradossalmente più semplice.
Come ti senti in termini di sicurezza?
Silvia: Mi sento più sicura. So che il sensore è una macchina, che può sbagliare, ma è il meglio che ci offre la tecnologia in questo momento. Quando il sensore scade, stacchi quello vecchio e metti quello nuovo, che ha bisogno di due ore per calibrarsi. Quindi per due ore non vedi i dati e io faccio coincidere quelle ore con la sera quando è a casa, proprio perché il sensore mi fa stare tranquilla e se non funziona e so che lui è in giro o a scuola, non mi sento più sicura. In due ore tutto può succedere. In termini di sicurezza non ci rinuncerei mai, ma proprio mai mai mai mai. E anche lui si sente sicuro e poi è una noia in meno non doversi pungere le dita.
Irene: In termini di sicurezza mi sento molto molto più sicura. All’inizio quando abbiamo messo il sensore non mi capacitavo di tutto quello che io, per mesi, non avevo visto. La notte gli facevo una glicemia alle 3 del mattino ed ero convinta che fosse stabile, costante, che facesse delle linee dritte fra un punto e un altro, ovvero dalla rilevazione della glicemia con la capillare. Invece, in quelle finestre di tempo, la glicemia fa di tutto. Quindi accorgermi che la linea, l’onda su cui si muove la glicemia non è mai una linea retta, possibilmente è la via più tortuosa che possa compiere per unire i due puntini, è stato abbastanza scioccante. Per cui ecco, mi sento super felice di poter usufruire di queste tecnologie.
Che valore dai a questo tipo di tecnologia?
Silvia: Un bambino piccolo non ti sa comunicare come sta. Per cui vivevo in uno stato d’ansia pazzesco. Avevo paura, tensione, nevrosi a tratti.
Do il massimo del valore alla tecnologia. Per me è molto più importante il sensore del microinfusore, perché il monitoraggio ti dà una tranquillità impagabile.
Irene: Io sono estremamente grata di poter accedere a queste tecnologie e quindi di essere madre di un figlio nato in una parte del mondo in cui esiste un sistema sanitario nazionale che ti garantisce un accesso alle tecnologie, nonostante so che ci sono differenze tra regioni e regioni. Però per me tenere presente che siamo dei privilegiati perché possiamo richiedere ed accedere a queste tecnologie è un po’ il punto di partenza. Do un valore altissimo. Sono fermamente convinta che la cura e il benessere di un paziente diabetico che utilizza le tecnologie sia nettamente superiore rispetto a quelle che erano le terapie utilizzate fino a pochi anni fa e quindi provo gratitudine e felicità.
A cura di Patrizia Dall’Argine