La vostra grande lezione ai tempi del coronavirus, per la quale ringrazio

Io, qui, dovrei raccontare storie. Le vostre. Quelle che con grande generosità mi date l’opportunità di condividere. Ed è quello che normalmente faccio, da diversi anni oramai.
Così, l’altro giorno ho preso in mano gli appunti dell’ultima intervista e ho iniziato a pensare come traslarli in una narrazione coerente, con una struttura funzionale, e con una scrittura che fosse specchio fedele di quanto, al telefono, pochi giorni prima, mi era stato raccontato. 
Ma non ci sono riuscita. Alla fine della giornata, avevo scritto solamente due periodi e francamente poco incisivi, poco brillanti. Niente di memorabile. Li ho cancellati.

Come faccio a pensare a un racconto coerente, a una struttura funzionale, quando quello che accade al mio Paese, là fuori, è tutt’altro che un racconto coerente e funzionale. 
Come faccio a pensare a una sola storia, se l’emergenza del coronavirus impone di ragionare su tutte. Sull’essere umano in quanto tale. Sull’umanità in quanto tale. 
Il fatto è, che, come tutti, ho paura. E la paura non permette di parlare d’altro, finché non si parla di lei. Quindi facciamolo. Facciamolo qui. Insieme. 

Un elenco di paure che una persona con diabete potrebbe provare in questo momento, che abbiamo raccolto e così sintetizzato:

  • La paura di essere più deboli degli altri, e quindi destinati ad una prognosi peggiore
  • La paura di avere problemi di approvvigionamento delle medicine salvavita.
  • La paura degli assalti ai supermercati e di non trovare quello che per i diabetici può essere indispensabile o molto importante (zucchero, succhi, alcool).
  • La paura di non avere un’assistenza adeguata in caso di emergenza, perché gli ospedali sono oberati da altre emergenze
  • La paura della solitudine
  • La difficoltà nel gestire la mancanza di attività fisica

I media sono stati martellanti. Hanno parlato di deboli e malati come categorie a rischio. 
È vero, ma si è persa una grande occasione. Perché mai come ora una persona debole, un malato, è da considerarsi maestro. 

Ora, che tutti siamo confinati in casa, la solitudine si fa chiarificatrice e riconosciamo il grande bluff che la nostra società, da tempo immemore, ha fatto prosperare. Ci hanno fatto credere e sentire immortali, delle piccole divinità a cui tutto è concesso, a cui tutto è dovuto. 
Dopo di che ci hanno chiesto di vivere in maniera consona, di essere sempre vincenti, di non fallire, di non perdere, di rischiare, certo, ma di condividerlo solo se il rischio si è trasformato in impresa eroica, epica, perché a nessuno interessano storie con epiloghi differenti. 
Vivi come se non dovessi morire mai e fatti bello e fingi un’età e nascondi le rughe e non invecchiare e non ammalarti. E se ti ammali tienilo per te.
Ora, ci stiamo ammalando tutti e si sgretola come un castello di sabbia quello che pensavamo vero. 

Ed ecco che confusi, amareggiati e perduti, abbiamo tutti bisogno della vostra lezione
Abbiamo bisogno della vostra narrazione. Che la narrazione delle vostre vite venga a ripristinare un senso, a dare clemenza e conforto in questi tempi così impossibili e bui. 
Voi lo sapete già cosa significa vivere all’interno di un confine ben preciso, perché il vostro corpo ve l’ha imposto. Avete consapevolezza del limite, della linea che non si può oltrepassare.
La cronicità della malattia ha già svelato quello che noi abbiamo coscienziosamente evitato di comprendere. Che siete umani, che siamo umani, che non siamo invincibili, che non siamo perfetti, che la morte è parte della vita. Che si muore e si rinasce mille volte. Che la vita è fatta di inverni e primavere. E che se scappi dall’inverno hai perso una grande opportunità. 

Voi siete maestri, più che mai, ora, perché avete fatto i conti con tutto questo forzatamente, prima di tutti, e questo vi ha concesso una conoscenza espansa, più profonda, una maniera meno astratta di approcciarvi al tempo. Attimo per attimo, giorno per giorno, concentrati sul presente, su una iperglicemia da sistemare, su una ipoglicemia dalla quale riemergere. Abbiamo bisogno che ci parliate di resilienza. Un termine che ora, usato e abusato è diventato quasi odioso, perché violato. Perché appoggiato ovunque, preso in prestito qua e là, più per il suo significante che per il suo significato. 
Eppure, di resilienza dobbiamo parlare. Di resilienza siete titolati a parlare. Perché nel vostro caso non è uno stato verso il quale aspirate, è uno stato dentro il quale state. 
Per tutti i colpi che vi sono arrivati – partendo dall’esordio, dal giorno della diagnosi in ospedale, dal primo ago che vi ha punto il dito – ecco, da lì, avete imparato come ci si piega senza spezzarsi e soprattutto, come poi si torna in piedi. 
Abbiamo bisogno della vostra lezione. Di sentirvi dire che è possibile. Di sentirci raccontare dell’umanità per quella che è. Delle vite straordinarie e ordinarie che siete riusciti a portare avanti. Per quelle passioni che avete difeso. Per quella maratona che avete corso. Per quel lavoro che non avete perso. Per quel figlio che avete cresciuto, col diabete di tipo 1, come voi, ma prima di voi. 

Vi ringrazio, cari maestri, perché io non ho il diabete, ma mai come ora vi penso e mai come ora comprendo la vostra lezione.  

Patrizia Dall’Argine