Aggiornamento
Le linee guida per la terapia del diabete di tipo 2
Il giusto mix
Due autorevoli associazioni, l’americana Ada e l’europea Easd, hanno predisposto uno schema per individuare il modo più efficace di utilizzare le risorse terapeutiche oggi disponibili a seconda dei casi e delle diverse situazioni dei pazienti
La terapia del diabete di tipo 2 può contare oggi su un numero di opzioni assai più vasto rispetto al passato. Alle vecchie categorie di farmaci in uso dagli anni ’50, quali le sulfoniluree, la metformina e la stessa insulina, altre se ne sono aggiunte in tempi più recenti, con il risultato di rendere la terapia molto più efficace ma al tempo stesso assai più complessa. È necessario infatti, in ogni caso, procedere alla scelta preferenziale di un farmaco o di una combinazione di farmaci che si ritengano più idonei alle caratteristiche specifiche del singolo paziente. Anche se pochi sono gli studi clinici che hanno confrontato l’efficacia dei diversi indirizzi di terapia, è possibile tuttavia proporre alcune regole generali, suggerite in parte anche dalla esperienza direttamente acquisita nella pratica ambulatoriale. Per rispondere a queste esigenze l’Associazione americana per il diabete (Ada) e la Associazione europea per lo studio del diabete (Easd) hanno elaborato congiuntamente un algoritmo terapeutico che rappresenta oggi una guida cui fare riferimento per iniziare ed eventualmente modificare il trattamento farmacologico ottimale dei diabetici di tipo 2.
Non dobbiamo mai dimenticare che l’obiettivo primario della terapia del diabete è quello di prevenire le complicanze micro e macrovascolari e che per questo è necessario neutralizzare tutti i fattori di rischio, fra i quali vi è la stessa iperglicemia. E’ infatti ormai dimostrato che anche le complicanze cardiovascolari del diabete, e non soltanto quelle microvascolari, come la retinopatia, la neuropatia e la nefropatia, sono favorite da valori elevati di glicemia. Scopo della terapia è perciò quello di riportare la glicemia a valori il più possibile vicini alla norma, evitando al tempo stesso di incorrere nel rischio di ipoglicemia.
Il parametro di riferimento è rappresentato dalla emoglobina glicata o HbA1c, che, come è noto, esprime la media di tutti i valori di glicemia dei precedenti due mesi. Il valore più alto della norma di HbA1c è pari a 6,1% e per questo la Federazione internazionale del diabete suggerisce di raggiungere nei diabetici un valore inferiore a 6,5%. Con un indirizzo meno restrittivo, l’Ada indica nel valore del 7% il tetto al di sopra del quale è necessario intervenire con una modifica della terapia per riportarlo rapidamente al di sotto di questa soglia. A nostro avviso, l’indicazione dell’Ada deve ritenersi valida per la maggioranza dei pazienti diabetici, anche se in casi specifici, particolarmente nei diabetici di tipo 1, è possibile perseguire obiettivi più ambiziosi. Il limite a una terapia che miri a valori di glicemia e di HbA1c più vicini alla norma è rappresentato dal rischio di ipoglicemia. Di questo dobbiamo essere particolarmente coscienti quando ci troviamo di fronte a un paziente anziano o portatore di una grave patologia cardiovascolare. E’ possibile che i risultati negativi ottenuti da uno studio recente, lo studio Accord, che si proponeva di stabilire se fosse vantaggioso riportare il valore di HbA1c al di sotto del 6%, applicando una terapia intensiva in ogni caso, siano da attribuire anche a una maggiore incidenza di episodi ipoglicemici responsabili a loro volta di incidenti cardiovascolari.
In sintesi, la terapia ipoglicemizzante nel diabete di tipo 2 deve porsi come obiettivo medio una riduzione della HbA1c al di sotto del 7%, compresa quindi fra il 6-6,5 e il 7%, tenendo tuttavia ben presente il concetto che, appena il valore della HbA1c supera questa soglia, è necessario intervenire tempestivamente con una intensificazione della terapia, che può consistere nell’aumento del dosaggio di un singolo farmaco o nel passaggio a una combinazione o all’impiego di insulina, accanto o in aggiunta agli ipoglicemizzanti orali. In effetti, è da evitare l’esposizione del paziente per tempi lunghi a livelli elevati di glicemia, come si era soliti fare per il passato, per il rischio cardiovascolare che questi determinano.
Non dimentichiamol’attività fisica
Tenendo conto del ruolo esercitato da un errato stile di vita nella origine e nella diffusione epidemica del diabete di tipo 2, il primo intervento deve essere rivolto a introdurre norme dietetiche più corrette e, soprattutto, una quota maggiore di attività fisica. E’ esperienza comune, tuttavia, che una modifica dello stile di vita così intesa, è assai ardua da conseguire -particolarmente nei soggetti anziani, ma non solo- anche per la difficoltà di poter garantire a tutti i pazienti una educazione nutrizionale e un addestramento fisico forniti da personale tecnico specializzato. Per questo, l’algoritmo terapeutico proposto dall’Ada e dall’Easd propone correttamente di associare, fin dall’inizio, alla modificazione dello stile di vita, un trattamento farmacologico. Il farmaco suggerito in questa fase iniziale della terapia è la metformina, farmaco antico ma sempre valido per la sua capacità di ridurre la resistenza insulinica, determinata dalla obesità e, particolarmente, dalla obesità viscerale, che è alla base dell’origine, nella maggior parte dei casi, del diabete di tipo 2. Se, nell’arco di 1-2 mesi, l’obiettivo terapeutico non è raggiunto, è necessario associare un secondo farmaco che lo schema terapeutico indica direttamente nell’insulina, oppure in un farmaco capace di stimolare la secrezione insulinica come una sulfonilurea o una glinide, oppure infine in un glitazone. La scelta fra questi diversi indirizzi di terapia è lasciata al medico, che può optare per l’uno o l’altro in rapporto alle caratteristiche individuali del singolo paziente. Da quando la linea guida di Ada ed Easd è stata pubblicata, si è resa disponibile una nuova categoria di farmaci, le incretine o farmaci incretino-simili, anch’essi da collocarsi fra i secretagoghi, capaci cioè di stimolare la secrezione insulinica al pari delle sulfoniluree e delle glinidi, ma forniti di proprietà aggiuntive particolarmente preziose, come quella di mantenere in vita le cellule beta-insulari secernenti insulina, non solo, ma anche di favorirne la rigenerazione.
Il mostro benefico
Quando si parla di incretine, ci si riferisce agli ormoni che vengono secreti dal tratto gastro-intestinale sotto lo stimolo di un pasto e che potenziano l’effetto insulino-secretore del glucosio. L’incretina di cui è possibile l’impiego in terapia è il Glp-1 o un suo analogo, la exenatide, un composto isolato dalla saliva di una grossa lucertola tipica dell’Arizona, il Gila Monster, al quale questo giornale ha dedicato, non molto tempo fa, un servizio (vedi “Tuttodiabete” 3/2006). Attualmente, in attesa di poter disporre di preparati ad azione protratta, sembra assai difficile proporre l’impiego di Glp-1 o di exenatide per la necessità di una somministrazione giornaliera mediante iniezione sottocutanea. In alternativa, possiamo invece disporre di altri composti capaci di inibire un enzima, la dipeptil-proteasi IV, la cui funzione fisiologica è quella di demolire con estrema rapidità il Glp-1. Gli inibitori della Dpp-IV consentono al Glp-1 endogeno una più lunga permanenza in circolo e quindi una maggiore e più prolungata attività di stimolo della secrezione insulinica e di protezione delle cellule beta. Gli inibitori della Dpp-IV si pongono perciò, nell’algoritmo terapeutico, come un’alternativa all’impiego delle sulfoniluree o delle glinidi.
Un’altra correzione che ci sembra opportuno fare allo schema dell’Ada riguarda l’impiego dei glitazoni. Anche per questa categoria di farmaci, come per la metformina, l’effetto ipoglicemizzante è dovuto alla riduzione della resistenza insulinica. Tuttavia, poiché il meccanismo di azione è diverso, i due farmaci mostrano un’azione sinergica. La terapia combinata consente perciò di ottenere un risultato migliore con una riduzione della dose e dei potenziali effetti collaterali. Anche i glitazoni, quindi, al pari della metformina possono essere considerati farmaci di prima linea da impiegare in alternativa a questa, nei casi in cui vi sia una intolleranza gastro-intestinale a questo farmaco o una contro-indicazione al suo impiego.
Fra gli ipoglicemizzanti orali vanno anche citati gli inibitori della alfa-glucosidasi intestinale, come l’acarbose, che ritardano l’assorbimento intestinale del glucosio e sono quindi indicati laddove predomini una iperglicemia postprandiale rispetto all’iperglicemia a digiuno. Poiché, come abbiamo detto, l’obiettivo della terapia ipoglicemizzante è quello di non esporre il paziente a valori elevati di glicemia per tempi lunghi, non dobbiamo dilazionare l’inizio della terapia insulinica quando questa si rivela necessaria per il fallimento della terapia ipoglicemizzante orale. Il tempo di inizio della terapia insulinica, così come la scelta di una delle possibili combinazioni di farmaci orali, derivano da una attenta valutazione delle condizioni cliniche del soggetto, dall’età e dalla eventuale presenza di complicanze.
Prof. Paolo Brunetti
Direttore Dipartimento di Medicina interna Università degli Studi di Perugia