Il tema di questo articolo ruota intorno a una parola. Questa parola è impatto.
E viene spesa da Claudia, mentre mi racconta di due ambiti della sua vita all’apparenza opposti fra loro. Dico all’apparenza, perché mi piace pensare che ciò che è opposto in ognuno di noi, sia in realtà la fine e l’inizio di un cerchio, destinato a combaciare.
Mi piace immaginare che ci sia una naturale convergenza, una sorta di armonia in tutto ciò che ci compone. Nel bene e nel male.
Una cosa che provoca un forte impatto su una vita: l’esordio del diabete.
Un’altra cosa: scegliere la strada della cooperazione.
E questo è quel tipo di impatto che coinvolge chi lo fa e chi lo riceve.
La prima cosa definisce, inesorabilmente, limiti e confini; la seconda, inesorabilmente, li spezza.
È una deformazione professionale, credo, quella di associare le persone a immagini e sensazioni. Fare congetture sul luogo in cui lavorano o vivono. Cosa vedono quando si affacciano dalla finestra della loro cucina.
L’immaginario che suscita la telefonata con Claudia è quello di una donna molto impegnata. Una donna con responsabilità lavorative importanti. Alle 18:30, l’ora stabilita per la nostra intervista, mi scrive scusandosi: è ancora in riunione.
Mi richiama alle 19:00, un po’ trafelata, e da lì in avanti alla sua voce che mi racconta la sua storia, si alternano rumori di una Milano in movimento. Una Milano che riporta a casa i suoi lavoratori. Rumori di metro (o autobus?). La sua voce che a tratti sfuma e diventa un tutt’uno con la città che lei ama. Una napoletana a Milano.
Chissà perché, ma penso sempre, che se hai avuto a che fare col mare dall’infanzia, con fatica riuscirai a barattarlo con quel nucleo di cemento ad alta velocità che è una città metropolitana.
Una volta, un’amica – anche lei donna di mare – trasferitasi per questioni lavorative, mi ha detto che vivere a Milano è come essere innamorati della persona sbagliata. Quel tipo d’amore intenso e travagliato al quale proprio non puoi – vuoi – rinunciare.
Claudia mi dice che Milano è un posto in cui si sente bene, al sicuro. Ci sono persone che ama; a sua volta è amata.
È il luogo nel quale ha avuto il suo primo incontro col diabete. Quei sintomi che, ingenuamente, in prima analisi aveva letto in maniera positiva.
«Forse continuo a bere e ad andare in bagno perché faccio tanta attività fisica, perché vado in bicicletta», si era detta.
Ma poi i sintomi si sono fatti inequivocabili e non potevano più essere interpretati come sinonimo di salute. La spossatezza costante, un repentino abbassamento della vista, le analisi fatte a Napoli tra lo scetticismo generale – dato che in famiglia non c’erano mai stati casi – e infine, le risposte sul treno che la riportava a Milano.
E poi, quello che lei definisce un punto chiave, ovvero il primo incontro col diabetologo.
«Sento un profondo senso di gratitudine nei suoi confronti. Gli devo molto. È stato in grado di farmi capire la serietà della questione, ma nello stesso tempo con altrettanta chiarezza e fermezza che sarei stata in grado di gestirla. E bene. Che non avrei avuto cambi radicali nella mia vita. Ho sempre avuto un rapporto strano con i medici. Normalmente non voglio andare e fatico a chiedere. Con lui è stato naturale. E ogni volta che avevo dubbi è stato presente».
Claudia ha continuato a fare il suo lavoro. Ha cambiato un po’ le modalità. Nel corso degli anni ha lavorato come Research Assistant in Commissione Europea a Bruxelles. In seguito, è approdata a progetti che si svolgevano in Asia e che la costringevano a trasferte lampo, anche solo di 48 ore, dall’altra parte del mondo.
«Era diventato impegnativa la gestione della basale. Viaggi di quel tipo, ti provano per almeno una settimana, una volta tornata».
Quindi ora lavora per una fondazione e si dedica a progetti di formazione per ragazzi.
«Dopo gli studi sono approdata, un po’ per caso, a questo tipo di lavoro. E una volta iniziata, è una strada dalla quale non si torna più indietro. Perché quello che faccio ha un effetto concreto sulla vita degli altri. Un effetto misurabile. Di conseguenza, più fai e più vorresti fare. Quelle otto ore di lavoro si riempiono di infinito significato. Sento che sono spese bene. Sento che fa parte di me. E se c’è una cosa che ho appreso, anche attraverso il diabete, è la necessità di essere molto più selettiva su come utilizzo il mio tempo, per cosa e anche con chi».
A cura di Patrizia Dall’Argine