L’importanza della psiche

Intervista

DIABETE E PSICOLOGIA: INTERVISTA AL DOTTOR PAOLO DI BERARDINO

L’importanza della psiche

Glicemia, pressione, alimentazione, tutte cose da tenere sempre sotto controllo. Ma lo spirito, lo stato d’animo del paziente? La condizione psicologica di chi deve convivere con il diabete è non meno importante. Ne abbiamo parlato con il dottor Paolo Di Berardino, responsabile del Servizio di diabetologia e malattie metaboliche dell’Ospedale di Atri (Teramo), che da tempo approfondisce questo tema.
 “Negli ultimi anni -ci spiega- sta assumendo crescente importanza la valutazione psicologica e sociale del paziente -anche alla luce delle recenti linee guida della American diabetes association, rimodulate sulla realtà italiana negli “Standard di cura” redatti da Amd/Sid-Diabete Italia- perché la situazione psicologica interferisce molto nella gestione della patologia. Se ne parla fin dagli anni 80. Oggi ci sono studi che ne confermano la validità e ormai ci crediamo tutti. Siamo passati da una visione biomedica a una biopsicosociale, quella auspicata da precursori dell’educazione terapeutica come Jean Philippe Assal. Nella mia esperienza posso testimoniare che ciò ha dato e dà risultati positivi”.

Quali sono i fattori che pesano di più sul paziente?
Innanzitutto c’è il processo di accettazione che passa per le fasi di shock, rifiuto, rabbia e depressione, negoziazione, con possibili regressioni. Dopo la diagnosi, vari fattori psicosociali possono inficiare la corretta autogestione del diabetico, senza la responsabilizzazione del quale il trattamento non è efficace: preoccupazione del futuro, paura delle complicanze, ansia, stress. Il diabete impone alla persona di modificare completamente lo stile di vita: passare a una dieta rigorosa o svolgere regolare attività fisica presuppone uno stravolgimento dei ritmi abituali. Da qui possono derivare ripercussioni di tipo psicologico che a lungo andare possono portare a una non aderenza al trattamento consigliato dal diabetologo in una percentuale abbastanza alta di pazienti.

Quanto contano i rapporti con gli altri e con il mondo esterno?
I rapporti esterni, con i familiari, gli amici, il contesto di lavoro, condizionano sicuramente. Ci sono anche ostacoli nell’immaginario collettivo, perché per molti il diabete significa ancora soprattutto  complicanze, disfunzione erettile, amputazioni. Nonostante l’informazione più diffusa, il diabete spaventa ancora, anche se è dimostrato da tanti studi che, se è ben compensato, le complicanze si possono prevenire. Molto conta, però, la personalità del paziente: per esempio, se è un soggetto che ha predisposizione a cadere in depressione.

C’è sufficiente preparazione nell’approccio psicologico al paziente?
Gli operatori sanitari oggi non sono sempre adeguatamente formati nell’affrontare questi aspetti peculiari della malattia diabetica. Per tale motivo la nostra associazione scientifica Amd sta portando avanti un progetto formativo in ambito psicopedagogico, di cui la prima fase si è svolta tre anni fa (con l’organizzazione di 19 corsi residenziali), mentre il secondo step è previsto nel corso del 2008. L’obiettivo di tale percorso formativo è rivolto a far acquisire al diabetologo conoscenze e competenze psicologiche di base e di propria pertinenza, relativamente alla valutazione psicosociale del paziente diabetico.

Quali tecniche si devono adoperare?
Lo screening psicosociale va fatto al momento della diagnosi, poi quando il paziente manifesta un disagio, quando non si adatta alla sua condizione, se non segue i messaggi terapeutici che gli diamo. In questi casi le raccomandazioni degli Standard di cura prevedono un trattamento psicologico: non intendiamo psicoterapia, si tratta piuttosto di usare strumenti di valutazione, come test e questionari, per individuare eventuali psicopatologie e indirizzare il paziente allo psicologo o allo psichiatra ove le condizioni lo richiedano. Altrimenti, applichiamo tecniche di counseling psico-educazionale, cioè non di tipo specialistico psicoterapeutico, ma strategie di intervento personalizzate a seconda delle caratteristiche del paziente e rivolte a migliorare l’autogestione della malattia.

Quali sono i principi generali da seguire?
E’ fondamentale stabilire con il paziente un rapporto di empatia, per poter stabilire un reale colloquio: occorre quindi un ascolto attivo, la capacità di stare a sentire la persona che ha bisogno di parlare. Poi, fra i principi raccomandati, vi è la personalizzazione e negoziazione del piano terapeutico: il trattamento va sempre concordato con il paziente e adattato alle sue caratteristiche. E’ necessario fissare insieme sia gli obiettivi glicemici e terapeutici sia i modi per raggiungerli. Per esempio, se il paziente non riesce a fare 3-4 autocontrolli al giorno, cerchiamo di farlo arrivare per gradi. Discorso analogo può valere per la dieta. Possiamo, per esempio, usare tecniche come il problem solving, sforzandoci di trovare soluzioni, che siano vantaggiose sia dal punto di vista della terapia sia per le esigenze del paziente: inutile dirgli di andare in palestra, se il lavoro glielo impedisce, e proponiamogli di fare una passeggiata. Offriamogli alternative che ci permettano di non sconvolgergli la vita.

Può essere utile a volte spaventare il paziente, per convincerlo a collaborare?
No, l’approccio terroristico o impositivo non sortisce effetti positivi. Conviene, invece, cercare di condividere le esigenze del paziente. Occorre una vera alleanza fra paziente e medico per ottimizzare la collaborazione del diabetico. Infatti, oggi non parliamo più di compliance, stretta osservanza passiva, ma di adherence, adesione, condivisione convinta del trattamento da parte del paziente, che deve essere responsabilizzato.

La scarsa frequenza delle visite può essere un ostacolo?
Può esserlo, ma molto dipende dal medico, e da come è organizzato il servizio di diabetologia. In alcuni casi può essere opportuno visitare il paziente più spesso, più di una volta ogni 3-4 mesi.

I problemi dei diabetici sono gli stessi a tutte le età?
Sono in gran parte comuni a tutti. In genere, nel giovane l’impatto psicoemozionale è maggiore, legato ai rapporti con la scuola o con la compagnia degli amici, ma disagi analoghi possono provarli anche persone mature, che magari occupano posti di lavoro importanti e non vogliono far sapere di essere diabetici.

Per il paziente è meglio dichiarare agli altri il proprio stato?
Non ci sono studi in merito, né regole fisse: dipende dalla singola persona. Se, per esempio, è molto introversa, non è bene forzare. Abbiamo pazienti che ne parlano solo con l’amico intimo e rifiutano gli incontri di gruppo di auto-aiuto ed educazione terapeutica che organizziamo da anni fra i pazienti di tipo 1. Abbiamo visto che queste riunioni, così come i campi-scuola, hanno aiutato molti giovani a migliorare molto non solo il loro approccio relazionale, ma anche quello con il diabete. Ma vi sono altri che non accettano questa condivisione di esperienze e noi non possiamo imporgliela, in quanto il percorso di cura va sempre concordato e condiviso con il paziente.