Spegniamo i riflettori.
Spegniamo ogni riflettore sull’impresa. Anche se è difficile, per la miseria!
Perché a noi tutti interessa vedere il limite dilatato e superato. Ci piace chi sfida e vince.
Ci piace chi alza le mani in segno di vittoria, non di resa.
Ho avuto il piacere di parlare in due occasioni con Marco. Due, perché avevo bisogno di inquadrare bene la sua storia, anche se temo sia impossibile tentare di inquadrarlo, in ogni caso.
Mi limiterò ad alcune pennellate, che doverosamente sanno e possono restituire solo alcuni colori, alcune manciate di pensieri e di vita.
Lo sapevate che a 8.000 metri si vede la sfericità della terra? Io non lo sapevo. Me l’ha detto Marco. Me l’ha detto perché ci è salito, a 8.000 metri, in autonomia, senza ossigeno e senza portatori d’alta quota.
Con la mandibola e il corpo ghiacciato. Con 28 giorni in tenda e 7 al campo base, dormendo sotto le stelle.
E sono quei 7 giorni, quell’intimo e intensissimo rendez-vous con le costellazioni, la parte che ricorda con più gioia, con più gratitudine.
Che sia quella la vera vittoria? Sperimentare la potenza della natura, perdercisi dentro, riconoscere che siamo un filo d’erba, una foglia, un albero. Una stella.
“Natura è tutto quello che sappiamo senza avere la capacità di dirlo, tanto impotente è la nostra sapienza a confronto della sua semplicità”, diceva Emily Dickinson.
Me la cita spesso la grande poetessa statunitense, si riconosce in questo pensiero e in altri. Si riconosce nel movimento che conduce l’uomo verso la natura, verso l’ignoto.
Gli interessa dirmi che portare il corpo a 8.000 metri non è una cosa che faccia bene, piuttosto il contrario.
“Perché l’hai fatto, allora?”
“Per la libertà che si respira, mettendosi alla prova”.
È salito con i due amici-fratelli di cordata. Gianpaolo e Paolo. Uno davanti, l’altro dietro.
In alto, sopra di lui, la vetta del Cho Oyu. Con lui, costantemente con lui, il diabete. Con lui da quando ha 9 anni.
Lo stesso diabete di suo padre, una durissima analogia capace di creare – se possibile – un legame ancora più stretto con l’uomo di riferimento della sua vita, che gli ha fatto conoscere la montagna, i passi dentro la montagna, le braccia nella montagna.
“Ti sembrerà assurdo, ma i primi anni ero orgoglioso del mio diabete, mi rendeva simile a mio padre”. Poi a 16 e 17 anni i primi complessi di inferiorità. “Figurarsi se una ragazza vorrà mai uscire con me…”. E poi il superamento della cronicità grazie all’alpinismo. E si ricorda di un’estate in cui ogni giorno si arrampicava per due ore. Lì ha conosciuto persone che non vedevano il suo diabete, ma le sue capacità.
“La cronicità ti priva di fiducia in te stesso, l’attività sportiva è l’opposto”.
È quindi verso l’attività sportiva che ha indirizzato la sua vita.
La fatica. La necessaria fatica per salire in alto.
“A nessuno piace far fatica. A nessuno. Ma è necessaria, fa parte della vita. Non esiste una vita priva di fatica, di difficoltà. Lo sport è lo stesso. Bisogna indirizzare i giovani a non aver paura della fatica” (N.d.A.: per tutta la vita si è speso per organizzare campi di alpinismo per ragazzi, coinvolgendoli, facendo in modo che ognuno di loro potesse sperimentare il proprio unico e inimitabile rapporto con l’alpinismo).
Si dice in veneto: Col corpo se frusta, l’anima se giusta. E per quello che ho potuto sperimentare, nella mia vita, è la sacrosanta verità: il sudore è una cura infallibile.”
E poi c’è la montagna, e mi racconta che la performance non è mai stata la parte più importante. È lo stare dentro alla natura, in connessione diretta. La salita altro non è che una salita verso la verità. La verità del tuo corpo, la verità del fallimento quando non puoi continuare. La capacità di saper smettere quando è il momento di smettere e di riprovare quando è il momento di riprovare.
“A volte non ero all’altezza…ne sono uscito perché sono stato fortunato, non intelligente. Col diabete, la responsabilità è doppia, perché condiziona il modo di fare attività fisica. Sono diversi i margini di prudenza.”
Questa conversazione a me lascia di stucco, perché benché mi trovi di fronte a un uomo che ha fatto una cosa unica, stiamo dedicando molto più tempo a ragionare sulle altre volte in cui non ce l’ha fatta. A quello che ha imparato in quelle occasioni. A come siano state quelle occasioni a forgiarlo nel profondo. Al fatto che un corpo, anche allenatissimo, a un certo punto cambia. C’è un qui e ora a cui dare ascolto. Sincero ascolto.
Essere presenti al presente. È la montagna stessa che lo impone, è uno specchio. Eccoti, ti dice, sei questa cosa qui. Bisognerà accettarlo, no?
“Tu di cosa hai paura, Marco?”
Sta in silenzio per un po’…
“La totale assenza del sentire mi fa paura. Alla mancanza di emozione, preferisco il dolore”, mi dice.
Spegniamo, quindi, i riflettori sul campione. Accendiamoli sull’uomo. Un uomo che ha scelto di sentire sempre, comunque e nonostante tutto.
A cura di Patrizia Dall’Argine