È salita sul podio ancora una volta. È arrivata seconda, ma il sorriso che sfodera nella foto è da primo posto.
Michela Cogo ha 21 anni. Allenata da Paolo Gasparotto, nuota 4 volte a settimana e altri due giorni li dedica alla palestra. E quindi, quanto tempo le rimane per lei?
“Poco”, mi dice, “il giovedì! Che è giorno speciale, senza allenamenti”.
Da qualche tempo la piscina le sta stretta e l’ha abbandonata per nuotare in acque libere. Vuole sentirsi senza limiti, senza barriere artificiali, vuole sentire le onde. È più complicato? Sì, lo è.
Ma lei, dall’alto dei suoi 21 anni, esplode di energia e vita.
“Ho sempre nuotato. Fino a 3-4 anni fa, a livello agonistico, ora gareggio in categoria master. Nuotare in acque libere significa essere impegnati in allenamenti molto più lunghi. Quando nuoti per 2, 4, 5 km devi gestire bene le tue forze”.
“E il diabete come lo gestisci?”, chiedo. “Cerco di arrivare con una glicemia un po’ più alta, per evitare di andare in ipo durante la gara. Se questo accade, non posso continuare, poiché mi servono circa 10-15 minuto per recuperare. E la cosa, devo dire la verità, mi fa arrabbiare parecchio!”
Immagino. Da quello che mi sembra di capire dalle prime battute al telefono, Michela Cogo scende in acqua per dare il meglio di sé e fa in modo che sia così.
A 9 anni, quando il diabete ha fatto ingresso nella sua vita, nuotava già a livelli agonistici. Aveva il fuoco in corpo, o meglio l’acqua, e amava quell’elemento.
“Poi il giorno di Pasqua del 2006 ho bevuto più di due litri d’acqua in mezz’ora e la nonna si è allarmata. Proprio in quello stesso periodo mio nonno era diventato diabetico di tipo 2, per cui lei aveva gli strumenti per riconoscere i sintomi. La mia prima angoscia è stata: Ma quindi ora non potrò fare le cose che fanno gli altri? Non potrò più mangiare quello che voglio? Non potrò più nuotare?
Poi è arrivato il primo allenamento post-diabete. E ce l’ho fatta.
Però mi nascondevo. Non dicevo a nessuno cosa mi fosse accaduto, a parte agli miei amici più cari.
Ma un giorno è cambiato tutto. Io sono una persona che vede o bianco o nero. Sono passata dal non volerlo dire a nessuno, al volerlo dire a tutti. Ho pensato ai bambini e volevo che arrivasse un messaggio chiaro: noi ce la facciamo. Possiamo farcela. Capisco le ansie dei genitori di fronte a una patologia come il diabete, ma i bambini non possono essere tenuti sotto una campana di vetro. Ogni volta che la società ti considera diverso tende ad emarginarti, basti pensare al grave atto di bullismo verso il ragazzo con il diabete (di Torino) al quale hanno rotto il sondino per l’insulina.
Bisogna reagire e farsi sentire”.
Mentre lei parla, con la sua voce limpida e squillante, io penso che questo mondo è nelle buone mani ogni volta che un ragazzo giovane lotta per qualcosa di giusto. E che questa gioventù va ringraziata e onorata.
Bisogna ringraziare tutte le volte che una giovane donna e un giovane uomo si espongono, ogni volta che qualcuno ha voglia di dire a voce alta la sua verità.
Mi piace il fatto che mi dica che nuotare in acque libere la faccia sentire senza limiti, ma che allo stesso tempo non si sente di nuotare per più di 5 km, perché non può fingere che il diabete non ci sia. La cosa bella di Michela sta proprio qui nel suo fare, che non è strafare. È fare con coscienza, rispettandosi.
E il suo impegno verso i bambini con diabete l’ha preso davvero sul serio.
“Un giorno ho chiamato l’AGD (coordinamento tra Associazioni di aiuto a Bambini e Giovani con Diabete), mi sono presentata e ho detto che avrei voluto collaborare con loro. Mi hanno appoggiata tantissimo. Per cui ora, porto con me, ovunque, una felpa sulla quale è impresso Lino (l’orsetto simbolo di AGD)”.
Concludo chiedendole che cosa le passi per la testa mentre nuota.
“Sono concentrata”, mi dice, “e penso al messaggio che voglio far arrivare, perché è importante che arrivi forte e chiaro.”
Ed è arrivato Michela. Forte e chiaro.
A cura di Patrizia Dall’Argine