Seppure il diabete di tipo I, la forma della malattia che si manifesta dall’infanzia o adolescenza, sia riconosciuto come una malattia autoimmune, si conosce ancora poco del meccanismo con cui l’organismo reagisca contro se stesso nelle persone colpite. Qualche dettaglio in più è stato svelato da un team di ricercatori della Cardiff University’s School of Medicine in collaborazione con il King’s College di Londra, che hanno identificato le basi di una reazione autoimmunitaria nel comportamento anomalo di alcune cellule deputate alla difesa, i linfociti T.
In condizioni normali, i linfociti T vengono prodotti quando l’organismo percepisce di essere sotto attacco da parte di una minaccia esterna, sia essa costituita da virus, batteri o microrganismi patogeni. Queste cellule sono abili nel riconoscere gli agenti esterni e, legandosi a loro in prossimità di recettori specifici, li eliminano dall’organismo. In chi soffre di diabete mellito, i linfociti T si attaccano, invece, alle cellule beta del pancreas e, distruggendole, influenzano la produzione anomala di insulina che caratterizza la malattia.
Ma cosa succede, nello specifico, nell’organismo? Sebbene alcuni punti siano ancora da chiarire, in questo studio i ricercatori anglosassoni hanno intuito che un ruolo importante in questo meccanismo sia giocato dai cosiddetti linfociti T ‘killers’, cioè quelli che hanno il compito di legare ed eliminare i nemici. I dati sperimentali hanno confermato che queste cellule si legano quelle beta del pancreas, determinandone la distruzione. Non solo, sembra che questo legame sia così anomalo da mantenere e far durare a lungo la reazione immunitaria contro le cellule produttrici di insulina così, una volta scatenata, la reazione autoimmunitaria è da arrestare.
“Questi primi risultati riguardo al modo con cui I linfociti T killer si leghino alle cellule beta del pancreas sono determinanti e ci forniscono ulteriori dettagli sul meccanismo di insorgenza del diabete di tipo I. Conoscerlo nel dettaglio potrebbe essere utile, in un futuro, per aiutarci a predire l’insorgenza della malattia e anche permetterci di sviluppare nuovi approcci preventivi. Il nostro obiettivo è riconoscere le prime manifestazioni della malattia, prima che vengano danneggiate troppe cellule beta nel paziente diabetico”, conclude Mark Peakman del NIHR Biomedical Research Centre di Londra, coautore dello studio di ricerca.
Cinzia Pozzi
18 gennaio 2012 [FONTE: Nature Immunology]