È diventato raro oramai leggere di patologie senza imbatterci, almeno una volta, nella parola “Consapevolezza”: proprio quella con la C maiuscola, che accompagnata dal motto “Volere è potere” ci si immagina smuovere mare e monti grazie alla sua supposta forza intrinseca.
Un’immagine forse confortante ma anche idealizzata, che ruba la scena allo sforzo quotidiano, ai dubbi, alle scelte difficili che giorno dopo giorno mettono alla prova chi vive con una patologia cronica.
Questo mi ha insegnato l’intervista con Maria Martina: che la sua forza non si è autogenerata quando ha ricevuto la sua diagnosi (come se fosse ormai un epico momento negativo lontano), ma è cresciuta insieme a lei nei giorni con il diabete (ormai più numerosi di quelli senza), non potendo più dare niente per scontato.
“Per me il diabete non era una cosa positiva, non lo è, e non lo sarà mai. È stato innanzitutto un trauma.” E i traumi, si sa, fanno crescere più in fretta.
A soli nove anni Maria Martina ha preso in mano la sua patologia: dal primo ricovero ha insistito perché le infermiere spiegassero a lei come fare l’insulina. Per questo, dice, è cresciuta più in fretta degli altri bambini.
La consapevolezza dei diversi rischi che il diabete comporta è un peso che ci si porta dietro, in esso puoi trovare motivazione e crescita personale, ma è innanzitutto un onere per la propria salute mentale, un altro aspetto spesso sopravvalutato o completamente ignorato.
“Sapere di avere il diabete è già di per sé pesante: mi sento perennemente stressata dalla mia condizione. È un gatto che si morde la coda, perché se sono in ansia per qualcosa, ad esempio un esame, poi questo avrà un impatto sulla mia glicemia”.
A gravare ulteriormente sulla routine c’è il peso della solitudine, perché mancano le attività di divulgazione, perché c’è ignoranza, perché sei l’unica ad affrontare questa condizione nel raggio di chilometri.
“Io i sintomi li avevo tutti ma il pediatra non si era reso conto di niente. Fu mio padre a portarmi in ospedale dopo essersi informato sul diabete e mia madre ad appendere un cartellone con tutti i sintomi nello studio del dottore. Ero l’unica bambina con il diabete di tipo 1 in tutto il paese di nove mila abitanti”.
I campus sono stati fondamentali, mi dice. La vera comunità dove non sentirsi sola, dove tutti i lati della propria esperienza, come il mondo dell’adolescenza, trovano finalmente uno spazio di supporto alla pari.
“Quella è la mia vera comunità, non come i social, che secondo me vogliono sempre ostentare una certa positività forzata”.
C’è un detto, mi spiega, che dice “siamo più sani dei sani” perché sempre sotto controllo, ma poi c’è un’altra faccia della medaglia, ci sono numeri, tanti fattori da considerare e nessuna regola fissa. Anche per non perdere tutta questa complessità, mi spiega, Maria Martina non dice di ‘avere il diabete’. “Io sono diabetica. È la prima cosa che dico per presentarmi, per trasmettere informazioni, non perché io mi senta solo questo. Io sono già un mondo, ma in questo mondo, in tutte le sue sfumature, c’è il diabete”.
Maria Martina non si è fatta carico solo della sua malattia, ma anche di farsi valere, di portare informazioni, di affrontare stereotipi e ignoranza, per sé stessa e per altri, e non ha smesso di farlo. In futuro vorrebbe fare più attività di divulgazione, quando avrà tutte le competenze “perché bisogna smettere di agire solo quando succede qualcosa di grave e troppi educatori adulti non si aggiornano”.
Mi racconta, infine, che questa estate è stata fermata da una madre che ha riconosciuti i due cerotti: “Quando mi ha visto con piercing, tatuaggio, tutta abbronzata e mi ha detto ‘che bello vederti, almeno so che mia figlia avrà una vita normale’.”
Molto più forte della consapevolezza, rifletto salutandola, è la prova tangibile di non essere soli, che altri esseri umani hanno percorso il tuo stesso cammino lasciandoti segnali per orientarti e che, se lo vorrai, potrai fare lo stesso anche tu.