Pesce, frutta e un bel caffè

Attualità

PROMOSSI DA STUDI INTERNAZIONALI
Pesce, frutta e un bel caffè

Secondo alcune recenti ricerche, la classica dieta mediterranea contribuisce a ridurre l’invecchiamento cerebrale, qualche tazza di espresso o di tè aiuta a prevenire l’insorgenza del diabete. Grazie al loro effetto antiossidante

di Paolo Brunetti

Anche Oltreoceano vi è un interesse crescente per la dieta mediterranea e per i suoi pregi dal punto di vista del mantenimento di una buona salute fisica. Nel meeting di Biologia sperimentale tenutosi ad Anaheim in California, un ricercatore di Chicago, Christy Tangney, ha presentato i risultati di una ricerca condotta per sette anni su una popolazione di 3790 soggetti, di età mediamente superiore a 65 anni (Tangney C. , Experimental Biology Meeting, Anaheim, Calif., April 24-28, 2010) arruolati in un progetto ancora in corso, il Chicago health and aging project, e sottoposti periodicamente a un questionario sulle abitudini alimentari. In particolare, è stata esplorata l’aderenza a un modello di dieta mediterranea ricca di frutta, vegetali, legumi, pesci, olio di oliva, completata da una quantità moderata di vino. Sulla base della frequenza con cui questi alimenti venivano consumati è stato assegnato un punteggio definito come basso, medio o massimo.
I soggetti sono stati quindi sottoposti a una batteria di test mentali atti a valutare la capacità di memoria a breve e lungo termine e a definire un punteggio cognitivo globale. Dalla ricerca è emerso che i soggetti che avevano registrato un punteggio più alto di aderenza alla dieta mediterranea, avevano anche una capacità cognitiva superiore a quelli con punteggio medio o basso.
La conclusione tratta dagli autori è che la dieta mediterranea è in grado di proteggere dall’invecchiamento la funzione cerebrale. Questo effetto è da attribuire verosimilmente ai composti fitochimici (soprattutto polifenoli), dotati di potere antiossidante, presenti nei prodotti di origine vegetale e capaci di ridurre la perdita di neuroni con un meccanismo diretto o mediato dal sistema cardiovascolare.
Nero bollente
Un altro tema molto studiato è quello degli effetti nocivi o benefici della assunzione di caffè o di tè: periodicamente su questa materia compaiono in letteratura notizie contraddittorie. Per dire una parola definitiva sull’argomento, sono stati pubblicati sul numero di dicembre dell’Archive of internal medicine, i risultati di una meta-analisi di 18 studi prospettici compiuti fra il 1966 e il 2009 su quasi mezzo milione di soggetti (Huxley R. et al., Coffee, decaffeinated coffee, and tea consumption in relation to incident type – Diabetes Mellitus: a Systematic Review With Meta-analysis, Arch. Intern. Med. 2009;169(22):2053-2063).
I dati desunti da questa meta-analisi sono sorprendenti, perché è emerso che esiste una associazione inversa fra il consumo di caffè e di tè e il rischio di sviluppare il diabete di tipo 2. A ogni tazza di caffè consumata in più corrisponderebbe una riduzione significativa del rischio di sviluppare diabete del 7%. Risultati analoghi vengono riportati anche per il consumo di caffè decaffeinato, il che lascia presumere che gli effetti positivi siano da attribuire ai composti antiossidanti di origine vegetale presenti in queste bevande.
Non sappiamo se i risultati ottenuti con il caffè preparato secondo l’uso anglosassone siano estendibili anche al caffè espresso delle nostre latitudini. Nel dubbio, sarà opportuno continuare a consigliare ai pazienti diabetici, così come ai non diabetici, di non consumare più di 2-3 tazzine di caffè espresso ogni giorno.

TROPPO FRUTTOSIO E’ CAUSA DI OBESITA’

Occhio alle bibite

L’abuso di bevande zuccherate e succhi di frutta, frequente tra i giovani, aumenta i rischi di sovrappeso, di danni al fegato e di insorgenza di diabete di tipo 2

Uno degli errori alimentari più diffusi nella moderna società, particolarmente nei giovani, è l’uso eccessivo di bevande zuccherate e di succhi di frutta integrali, particolarmente ricchi in fruttosio. Una introduzione eccessiva di fruttosio contribuisce, in effetti, al dilagare della obesità, della sindrome metabolica e del diabete di tipo 2, che oggi, a differenza del passato, colpiscono anche l’età adolescenziale o infantile.
Una recente ricerca condotta presso la Duke University, negli Stati Uniti, e pubblicata on line sulla rivista Hepatology, ha dimostrato che il maggior consumo di fruttosio è anche correlato con una maggiore frequenza di patologie del fegato, legate all’eccessivo accumulo di grasso, quali la steatosi epatica e la sua evoluzione verso una steatoepatite non alcolica (o Nash), entrambe notoriamente associate alla sindrome metabolica e al diabete di tipo 2(Abdelmalek M.F. et al., Increased fructose consumption is associated with fibrosis in patients with nonalcoholic fatty liver disease, Hepatology, Published online: 28/1/2010 ).
Gli autori attribuiscono questi effetti del fruttosio alle sue specifiche caratteristiche metaboliche. L’ingestione di quantità eccessive di fruttosio si associa infatti a una maggiore sintesi epatica di trigliceridi, che si traduce, oltre che in un accumulo epatico di grassi, anche in un aumento della trigliceridemia e in una riduzione del colesterolo Hdl (il colesterolo “buono”). Contemporaneamente, si osserva anche un aumento della uricemia. L’elemento di maggiore originalità della ricerca consiste tuttavia nella dimostrazione che all’aumento del consumo di fruttosio corrisponde un aumento dei fenomeni infiammatori riscontrati a livello epatico mediante agobiopsia. Il meccanismo biochimico di base che sottende queste modificazioni consiste nella rapida fosforilazione del fruttosio a livello epatico che determina un periodo di transitoria deplezione (diminuzione) cellulare di Atp e nella proprietà del fruttosio, unica fra gli zuccheri, di aumentare la concentrazione cellulare di acido urico. L’iperuricemia può essere perciò considerata espressione di una riduzione di Atp e un fattore di rischio per la progressione della steatosi epatica verso una steatoepatite (Nash). Questa ricerca ha il merito di avere individuato in un fattore ambientale facilmente evitabile (un eccessivo consumo di fruttosio) una delle cause di aggravamento della patologia epatica associata alla sindrome metabolica e al diabete di tipo 2.