“Il diabete lo respiro da sempre”, mi dice.
È interessante che Monica abbia utilizzato questo verbo. Perché si respira qualcosa che è nell’aria, qualcosa che accade. Respiriamo la condizione degli altri, soprattutto se con altri si intende la propria famiglia.
Monica ha respirato il diabete della madre, che si è ammalata a 29 anni, quando lei era una bambina. Poi ha respirato quello dei cugini, che si sono ammalati a 11 e 18 anni. E infine quella del fratello, a cui è seguita la stessa sorte a 40.
Ecco perché lo respira anche se non lo vive in prima persona. Perché lei, Monica, il diabete non ce l’ha. Ma la paura, la frustrazione, lo sconforto, il dolore di chi c’è passato, delle persone che ama, è stato qualcosa di palpabile, tangibile, concreto.
La prima è stata sua madre. Era la fine degli anni ’70. Di diabete non si sapeva nulla. Ancora si facevano le punture monodose. La vita, dopo il ricovero di tre settimane, era improvvisamente cambiata.
“Ricordo mia madre chiusa in bagno a piangere. È durata per due mesi”.
Poi però, allo scadere di quel tempo, come risvegliata da un impeto interiore, una scarica elettrica che le ha attraversa tutta la colonna vertebrale, la mamma di Monica si è rialzata.
“E da quel giorno la vita è cambiata di nuovo, tornando a una sorta di normalità. È come se mia madre si fosse detta: ‘Basta così. Adesso, basta così‘. Abbiamo ripreso a viaggiare, a uscire la sera, il sabato si andava in pizzeria. Erano gli anni ruggenti di Milano. Mia madre oggi ha 70 anni e sta bene, nonostante sia insulino-dipendente da 41 anni”.
“Ci ha sempre parlato del suo diabete, e quando è arrivato nella vita di mio fratello, lui l’ha riconosciuto immediatamente. Ha perso 7 kg in pochissimo tempo, beveva acqua in continuazione. La sua prima reazione è stata di grande rabbia. Inconsciamente, forse, era arrabbiato anche con me. Lui, super sportivo si era ammalato, io invece che sono godereccia e amo la buona tavola, no. Sono reazioni dovute allo shock del momento. Non mi sono nemmeno sentita ferita, ho compreso il suo dolore.
Il diabete non ha minato le nostre fondamenta. Questa è stata la vittoria più grande. La nostra famiglia si è stretta ancora di più e ancora di più ci siamo sentiti uniti.
Il diabete di mio fratello è più aggressivo di quello di mia madre, molto più complesso da gestire, ma ha confermato il suo carattere combattivo, la capacità di non arrendersi”.
Torniamo a Monica. Monica che respira diabete ma che non lo vive in prima persona.
Non lo sperimenta, ma ne viene ugualmente colpita. Questo accade quando ciò che ci lega è un bene profondo e quindi, di conseguenza, ciò che ti fa male, mi fa male.
“Come ti ha cambiato il diabete dei tuoi famigliari?”, le chiedo.
“Vivo la cosa con fatalismo. So che nella mia famiglia c’è una predisposizione genetica, ma io non ho alcun controllo su questa cosa, se dovrà accadere, accadrà. Quello che ho appreso finora non ha a che fare con lo sconfiggere la malattia, che, al momento, non può essere sconfitta. La conquista sta nel trovare gli strumenti dentro e fuori per non farsi stravolgere la vita.
È tremendamente faticoso, ma non gli si può permettere di fermarci. Per i miei famigliari l’impatto è stato violento, e ognuno, a modo suo, ha dovuto percorrere un lungo cammino prima di arrivare all’accettazione. Una volta lì, una volta accettato che il corpo aveva un difetto, si è lottato perché non fosse difettosa la vita. Ci sono nuovi limiti rispetto al fare, ma una volta rispettati, c’è un mondo che ci aspetta. Il diabete non vieta di vivere una vita piena”.
Alla fine della telefonata con Monica io penso ai legami. A quello che ci portano e anche a quello che ci tolgono. Siamo la risultante di entrambe le cose, che convivono in un equilibrio incredibile e allo stesso tempo semplicissimo.
Un respiro profondo per tutte le cose che abbiamo.
Un altro per tutte quelle che non possiamo cambiare.
Un altro per ogni storia che ci aiuta a comprendere meglio la nostra.
A cura di Patrizia Dall’Argine