“La Terapia Medica Nutrizionale è parte integrante del trattamento e della autogestione del diabete ed è raccomandata per tutte le persone con diabete tipo 1 e diabete tipo 2, come componente efficace del piano di trattamento globale della malattia, con l’obiettivo di mantenere o migliorare la qualità di vita, il benessere fisiologico e nutrizionale e prevenire e curare le complicanze acute e a lungo termine e le comorbilità associate”
Così si legge negli Standard italiani per la cura del diabete mellito, il documento stilato nel 2016 dall’AMD (Associazione Medici Diabetologi) in collaborazione con la SID (Società Italiana di Diabetologia), che contiene, tra le altre indicazioni terapeutiche, anche le raccomandazioni dietetiche, sulla base delle evidenze scientifiche più solide.
La scienza non lascia dubbi sull’utilità della Terapia Medica Nutrizionale. I dubbi emergono quando dalle ricerche scientifiche si passa alla vita concreta e le cose si complicano notevolmente, per il medico che deve strutturare il programma terapeutico e per il paziente con diabete che deve metterlo in atto.
“Un approccio multispecialistico – si legge negli Standard – è necessario per integrare la Terapia Medica Nutrizionale in un programma terapeutico che deve tenere in considerazione le esigenze personali, la disponibilità ai cambiamenti, i target metabolici, il tipo di diabete e trattamento ipoglicemizzante, il livello di attività fisica e lo stile di vita”.
L’intervento deve essere quindi centrato sulla persona, intesa in senso bio-psico-sociale non solo come un corpo malato (i target metabolici, il tipo di diabete, ecc), ma come individuo e come soggetto che, per esempio, ha delle esigenze personali. Un soggetto che è più o meno disponibile al cambiamento.
Quando siamo realmente disponibili a un cambiamento nel nostro modo di nutrirci? Basta che ce lo dica il medico? Già… “me lo ha ordinato il medico”, un’espressione ironica, una parodia del paternalismo medico che può facilmente essere manipolato per giustificare qualsiasi comportamento. Perfino un’alimentazione completamente travisata rispetto a quello che ha realmente “ordinato” il medico.
Nemmeno è sufficiente che il medico spieghi, ci informi e ci fornisca tutte le tabelle nutrizionali necessarie: la comunicazione non è un mero passaggio di informazioni tra una figura esperta e una meno esperta. Non basta essere informati o comprenderne la necessità su un piano clinico per cambiare i propri comportamenti alimentari.
Un modello più efficace per la terapia medica nutrizionale è quello dell’alleanza terapeutica, in cui anche il paziente è portatore di un sapere legato alla malattia ed è attivamente partecipe nella co-creazione del percorso di cura e nella scelta di strategie alimentari.
Verso una Terapia Nutrizionale Narrativa
Come si costruisce l’alleanza terapeutica nella terapia nutrizionale medica per il paziente con diabete? Alcuni recenti articoli (vedi bibliografia sotto) propongono una nuova strada: quella di applicare l’approccio narrativo alla dietologia e alla TMN.
La medicina narrativa propone infatti una ridefinizione radicale della relazione medico-paziente, in cui il racconto della storia di malattia da parte del paziente si situa al centro della pratica clinica.
Rita Charon, fondatrice del corso di Medicina Narrativa alla Columbia University di New York, definisce la Medicina Narrativa come “la capacità di riconoscere, assorbire, metabolizzare, interpretare ed essere mossi dalle storie della malattia”. In oltre 25 anni di esperienza nella formazione dei professionisti della salute, Rita Charon ha mostrato che, insegnando la letteratura, l’arte, ed esercitando la lettura attenta, l’ascolto attivo e la scrittura riflessiva, è possibile migliorare l’empatia, rafforzare l’alleanza terapeutica e imparare a capire cosa fare con le storie”.
La Medicina Narrativa mostrerebbe specifici vantaggi nel contesto dell’educazione alimentare e della TMN, in quanto permette di costruire una relazione di fiducia profonda e significativa tra professionista sanitario e paziente; offre inoltre al paziente la possibilità di raccontare la propria storia nei termini delle complesse relazioni con il corpo e con il cibo; aiuta i curanti a comprendere meglio che le persone non percepiscono il cibo nello stesso modo dei professionisti della salute; valorizza il contesto sociale, non solo le motivazioni intrinseche del paziente; favorisce una comprensione degli aspetti culturali del rapporto con il cibo.
In Italia esistono alcuni esempi di applicazione della Medicina Narrativa in diabetologia, di cui abbiamo già parlato in questa rubrica: ad esempio presso l’ASL di Terni e Progetto Curiamo a Perugia.
Dalla lista della spesa all’ascolto della storia
Proviamo a fare qualche esempio più concreto di come la medicina narrativa entra in gioco nel facilitare un cambiamento nel regime alimentare.
La TMN comprende 4 fasi:
1) valutazione dello stato di nutrizione, della conoscenza e della capacità di autogestione da parte del paziente;
2) identificazione degli obiettivi nutrizionali individuali;
3) attuazione di interventi che comprendono la pianificazione dei pasti e la produzione di materiale educazionale che consenta al paziente di migliorare il piano di intervento;
4) valutazione e monitoraggio dei risultati.
La Medicina Narrativa non propone un metodo diverso da quello suggerito dalla Medicina basata sulle Evidenze, ma un cambiamento di postura. Un cambiamento che appare evidente nelle parole della dottoressa Diane L. Habash della Ohio State University:
“… nell’ambiente della dietologia in cui cerchiamo di facilitare un cambiamento nel paziente, siamo ansiosi di raccogliere tutta la litania e la lista dei cibi, delle bevande, di cosa piace e non piace, delle allergie e delle intolleranze, che servono come nutrimento per costruire i nostri suggerimenti (…) Ma, oltre alla litania delle cose da fare o da mangiare, possiamo offrire di più? C’è qualcosa nella storia di questa paziente che dovrei cogliere per riuscire ad avere un impatto più genuino e sostenibile? Ho ascoltato abbastanza attentamente?”
Porsi questo tipo di domande significa iniziare a pensare a un regime alimentare non come a una lista della spesa ma a una storia. Una storia di vita che coinvolge una persona nella sua interezza: le sue abitudini in cucina e a tavola, le relazioni con i familiari e gli amici, i valori della sua famiglia e del suo contesto culturale; le possibilità economiche e le credenze personali.
Ascoltando la storia del paziente, diventa possibile immaginare insieme che cosa conta davvero per il paziente. Si passa così al punto 2 della TMN: l’individuazione di obiettivi, reali, condivisi, significativi non solo da un punto di vista clinico ma anche umano.
Nell’articolo dal titolo Stories to Tell: Conducting a Nutrition Assessment with the Use of Narrative Medicine, di Jill Balla Kohn, dell’ Academy of Nutrition and Dietetics’ Knowledge Center viene riportato il racconto di un dietologo su un paziente che ha appena ricevuto una diagnosi di diabete. È un esempio di come funziona una cartella parallela, in cui il medico non inserisce i dati sul peso, i valori della glicata, i risultati delle analisi, ma scrive la storia di una relazione medico-paziente:
“Entrando nella sala delle visite, mi accorgo che ha gli occhi lucidi. Era consumato dal senso di colpa, sentendo di essere lui la causa del suo diabete. La sua mente, mentre parlavamo, era occupata dal pensiero dei danni che il diabete avrebbe portato al suo corpo. Altri membri della sua famiglia avevano subito amputazioni: cosa sarebbe successo a lui? La paura risuonava nelle sue parole, benché si sforzasse di trattenere l’emotività. Preservare la salute era prioritario, ma mi sembrava evidente che quest’uomo vedeva di fronte a sé soltanto il declino. Senza dimenticare che non avrebbe più potuto mangiare i suoi piatti preferiti e che sua moglie avrebbe dovuto imparare a cucinare in modo diverso. Non era giusto che dovesse cambiare e imporre loro questo stile di vita salutare. E tutto a causa del diabete che si era procurato da sè, o così credeva.”
a cura di Francesca Memini