Ho conosciuto Thomas in un ostello in Nuova Zelanda, a Taupo. Era sera e la cucina era gremita di persone. È strano come la fame arrivi per tutti nello stesso momento, e come ci si debba destreggiare tra spazi risicatissimi, tra fornelli e pentole e verdura da tagliare e riso o pasta da bollire e ricette da inventare. Negli ostelli, luoghi di incontro per antonomasia, luoghi di persone che vengono da ogni parte del mondo, con culture – culinarie e non – diverse. A volte opposte.
Thomas lo sento parlare in francese. Ci scambiamo solo qualche informazione base. Sai dov’è il sale? E l’olio? Il fornello come si accende?
È un ragazzo gentile e sorridente e il giorno dopo lo incontro a colazione. Non ricordo bene come e quando abbiamo iniziato a parlare sul serio, a scambiarci idee e a condividere le rispettive esperienze. Parliamo del viaggio, perché entrambi siamo in viaggio.
Thomas ha ricevuto la Visa per vivere un anno in Nuova Zelanda.
“Perché hai deciso di venire in Nuova Zelanda?”, gli chiedo.
“Per molte ragioni”, mi risponde. “Ma prima di tutto perché era il momento giusto a livello personale e professionale. E poi volevo misurarmi. Volevo capire se ero in grado di viaggiare anche col diabete”.
Perché Thomas ha il diabete dall’età di 24 anni. Quando gli hanno detto della malattia, il tempo, come spesso capita in questi casi, si è fermato. Un tempo di incomprensione e scoramento fino al raggiungimento della consapevolezza reale e dell’incontro col nuovo sé.
E ora, a distanza di circa 6 anni, l’esperienza della Nuova Zelanda. Esperienza di viaggio e di lavoro. Perché Thomas mi dice che ha intenzione di viaggiare, ma anche di lavorare e di vivere a tutto tondo come un kiwi, sperimentando così la quotidianità in questa parte di mondo.
Questo è un viaggio in solitaria.
“Era obbligatorio per me partire solo. È l’unico modo per mettersi davvero alla prova”.
E in un anno di viaggio le vicissitudini e gli imprevisti sono più di uno o due. È indubbio. Affrontarli è l’unica opzione possibile.
L’organizzazione del diabete non è semplice.
“Può variare perché il cibo è differente, così come le attività fisiche, per non parlare del jet lag al tuo arrivo. La cosa più importante quando viaggi è sapere che puoi avere con te, per tutto il tempo, l’insulina. È complesso trasportarla, perché deve essere conservata a 5°C, se non viene utilizzata per mesi”.
Ma questo non è bastato a scoraggiare Thomas.
Perché certo il diabete può essere un limite, mi dice, se ad esempio si vogliono fare alcuni lavori o sport estremi, ma non può e non deve essere una barriera per i nostri sogni. Ci possiamo adattare e dobbiamo farlo.
Come? Scegliendo sogni su misura. Accettando i confini che definiscono dove possiamo arrivare, cosa possiamo fare e come.
Il suo sogno su misura, ora, è la Nuova Zelanda, un luogo di singolare bellezza nel mezzo del nulla, lontano da qualsiasi punto lo si guardi.
E un sogno fatto di natura sconfinata e incredibile, di verde e pecore, di spiagge e mare, di lavoro duro nelle farm, di autobus, di spostamenti da un’isola all’altra, di persone che incontriamo lungo la via, e che poi dobbiamo lasciare. Fino ad arrivare alla conoscenza più importante, quella di noi stessi.
E il viaggio è un metro di misura perfetto.
Thomas è una persona che infonde calma, un uomo con gli occhi aperti e in ascolto, che condivide la sua esperienza con molta naturalità. Che parla del diabete e si fa l’insulina mentre dividiamo i toast per la colazione.
Nell’ultima email che ci siamo scritti mi ha detto di essere in una farm, lontanissima da tutto e tutti, senza la connessione internet.
Mi ha fatto sorridere il suo spirito di intraprendenza e cerco di immaginare come possa proseguire la sua avventura.
Ma sono certa che sarà un anno che cambierà la sua vita e le sue prospettive e che questa sua scelta non sia stato un salto nel vuoto, quanto piuttosto, un volo ad ali spiegate.
A cura di Patrizia Dall’Argine