Virginia Verona e il valore di un “per sempre”

All’inizio parliamo dell’esordio. In genere è così. Solitamente chiedo di raccontare quella parte, perché saltarla è come saltare il primo capitolo di un libro.
E Virginia Verona mi stupisce. Le chiedo di descrivermi come si fosse sentita. E mi risponde raccontandomi la preoccupazione per la madre e per la sorella.
Insomma, il primo ricordo relativo all’avvento del diabete non è incentrato su cosa provasse lei, ma sulla preoccupazione per le persone a lei care.
Staranno male per il fatto che sto male?
Sì, per forza. Il diabete non tocca mai uno solo. Non è mai solo chi si fa l’insulina, chi va in ipo, o iperglicemia, chi si mette il sensore.
Il diabete è una questione collettiva, famigliare.
Non so se proprio per tutelare i suoi cari, Virginia ha trovato il modo di reagire e reagire in fretta. Non credo di averglielo nemmeno chiesto. Ma lo intuisco dal suo modo di parlare. Da quella serenità che assomiglia all’accettazione. Che non è mai, ed è bene ricordarlo, un obiettivo raggiunto, quanto una sfida quotidiana.

Virginia, prima del diabete, arrivato circa 4 anni fa, era un animale notturno. Faceva la barista nei locali del riccionese. Le piaceva avventurarsi nei meandri di quei mondi che iniziano al tramonto e finiscono all’alba. Dj set, concerti, i chilometri in macchina per andare a ballare. Ma anche il corpo ha degli orari da rispettare. La conduce ora, quella vita, da spettatrice. Ha rallentato, insomma, ma non ha spento i motori.

E poi fa un lavoro bellissimo: la tatuatrice. Un lavoro bellissimo e di responsabilità.
Perché ci vuole coraggio ad avere a che fare con i per sempre. Con l’indelebile. Soprattutto, se è del corpo di qualcun altro che stiamo parlando. Un lascito, mi viene da pensare. Un testamento fatto di linee e colori.
Come ci è arrivata? Facendo l’Accademia di belle arti e comprendendo immediatamente di non essere adatta per una vita da grafica, confinata in un ufficio. Ha iniziato a disegnare per i suoi amici che si volevano tatuare. E sono stati proprio gli amici a dirle: «Perché i tuoi disegni non li tatui tu?». Le hanno regalato una macchinetta e ha iniziato il suo percorso. Si è cercata un maestro, ha bussato alla sua porta, si è proposta come apprendista e lui ha detto sì.
E tutto si è allineato nella giusta direzione, quasi a dire che se quella è la strada, si incastrerà tutto con naturalità, con magnifica precisione.

Mentre parliamo io penso ai per sempre.
E penso che Virginia ha dovuto farci i conti. Il giorno dell’esordio. E poi tutti i giorni.
E anche che poi ha scelto un mestiere dove altri le chiedono dei per sempre.
Che se li fanno tatuare, ed è un po’ come dire: Fa che duri per sempre, o anche Dichiaro che è per sempre.
Quando glielo faccio notare, mi risponde che non c’aveva pensato. Al diabete…ai tatuaggi…
E questo mi ha colpita e l’ho trovato saggio. Perché in fondo, per sempre cos’è? Come si misura? Cosa ci si deve fare esattamente con un per sempre?
Virginia ha la saggezza di chi sta nel presente.
E ha la saggezza di aver seguito la propria vocazione. Facendo quello che ama fare non ha necessità di andare avanti con la testa e nemmeno indietro. Sta lì, dov’è.

E infatti, quando dipinge i suoi murales (su Instagram: virginiaveronamurales) – perché l’arte non è mai univoca e i murales sono l’altra sua grande passione – è talmente concentrata, talmente inglobata nel processo creativo che si dimentica di tutto e di tutti e potrebbe continuare ore, senza fermarsi.
«A meno che non arrivi una ipo», mi dice ridendo.

A cura di Patrizia Dall’Argine