Cos’è successo durante questa intervista a Luigi Zanardelli?
È successo che ho riso molto. Dall’inizio, direi, fino alla fine.
L’ironia, la sagacia, l’agilità mentale, un “botta e risposta” da mattatore, ma con toni pacati, quasi malinconici e per questo farseschi.
Una forza misurata, centripeta, che mi ha appassionato e che so, mio malgrado, di non poter restituire. Certe cose appartengono al provvisorio, al momento preciso in cui accadono. Riguardano la lingua parlata; evaporano quando si tenta maldestramente di fissarle in quella scritta.
E tutto questo, permettetemi, io lo trovo irresistibile e profondamente giusto.
Mi è capitato, per mia fortuna, di incontrare molte persone in questo mondo. Sono stati attimi di casuale, inaspettata meraviglia. A volte, giuro, sfioravano la perfezione. Spesso li ho raccontati, ma non del tutto, non nella loro interezza. La loro interezza non mi appartiene. Non appartiene a nessuno, azzardo. Soltanto al tempo in cui è accaduta, nel quale ha trovato una forma e un respiro.
Quello che posso fare oggi, quindi, è tentare di restituire la storia di Luigi – una piccola parte, s’intende – così come mi è arrivata, con un filo narrativo preciso che è il suo diabete. Un diabete che ha compiuto mezzo secolo perché se lo porta appresso – palla al piede, dice lui – da quando aveva 4 anni.
“Per me non c’è un prima e un dopo. E credo che questo mi abbia facilitato, perché non so cosa sia la vita senza di lui. D’altro canto non saprò mai, nemmeno, quanta fatica in più ho fatto, realmente. Come sarebbe stata la mia vita senza”.
Mi piace il modo in cui mi racconta del suo diabete. A volte crea metafore di carattere meteorologico: “È come una nube che mi accompagna”, altre volte lo antropomorfizza: “Mi fa i dispetti”, altre ancora è un’antica macchina da guerra: “Una testa d’ariete che si apre un varco nella tua vita”.
Alcune ipoglicemie gli lasciano un fondo di tristezza, di scoramento, o anche depressione.
“Provi ancora rabbia verso il tuo diabete?”, gli chiedo. “L’ultima volta, due ore fa”, mi risponde, “Ho un progetto, e non riesco a portarlo a termine. Il mio stato d’animo oscilla tra l’incazzatura e la frustrazione. Volevi fare quella cosa e un evento, non relativo al tuo impegno, te l’ha impedita”.
“E come sono stati gli anni dell’adolescenza?”
“Il rapporto con i compagni era trasparente, ma qualcosa al limite del tecnico. Dicevo solo: ‘Se vedete che straparlo, datemi lo zucchero che si trova lì‘. Non c’era alcuna condivisione empatica. Avevo fatto dei campi di aggiornamento, facevo incontri con psicologi di gruppo, ma fra coetanei nessun approfondimento. Ho capito veramente che tipo di carico apportasse nella mia vita dopo che mio figlio ha effettuato degli screening in ospedale, attraverso i quali è possibile ottenere una valutazione della probabilità di contrarre la malattia, ricercando la presenza di specifici anticorpi. La paura che fosse rilevato in mio figlio ha scatenato in me un’emozione fortissima. Lì ho veramente compreso cosa significasse questa convivenza che dura una vita”.
Quando gli chiedo di elencarmi tre qualità che lo rappresentano, non mi sa rispondere, temporeggia e dopo un po’ afferma: “Ma io non è che mi piaccia tantissimo”. Io rido. Ride anche lui. E poi riprende: “Non capisco se il diabete mi abbia reso più sensibile, o al contrario, più egoista. C’è un lato di te che è pronto a dire: ‘Vengo prima io’…”.
D’altra parte è necessario che sia così, penso. Un’ipoglicemia viene prima. Correggerla viene prima. È una questione vitale, per cui deve venire prima.
Eppure, in poche parole, in maniera efficace e concisa, esprime un conflitto che non mi era mai capitato di valutare e che credo possa trovare terreno fertile soltanto in un animo gentile. Serve un cambio prospettico tutt’altro che scontato per analizzare gli effetti del proprio diabete sugli altri.
Un salto dalla prima persona singolare, verso tutte le altre.
“Credo di aver sviluppato, tramite il diabete, una capacità di programmazione della sopravvivenza che non vedevo, ad esempio, nei mie coetanei, quand’ero più giovane. Metto in atto piccole strategie di autoconservazione. Ho un atteggiamento avventuroso che definirei strutturato. Mi preparo prima. Del resto, non potrei fare altrimenti”.
Luigi è un ingegnere meccanico. È sposato. Suo figlio ha 15 anni. Ama la barca a vela, ha preso nella sua vita circa 500 aerei, visitando circa 50 Paesi. In pochi possono dire di aver fatto altrettanto.
C’era la nube, la palla al piede, la testa d’ariete. Eppure lui è andato.
A proposito di visioni alternative…
A cura di Patrizia Dall’Argine