Immaginate che vi venga chiesto un giorno: raccontami un tuo sogno.
Raccontami un sogno che hai realizzato, oppure, meglio, raccontami un sogno che vuoi realizzare.
Immaginate di sedervi a una scrivania e pensare, perché no? Adesso te lo racconto, adesso te lo scrivo.
“Vorrei che tutti i giovani, tutti i bambini col diabete sapessero che una volta accettata questa patologia, una volta imparato a conviverci, nella vita si può fare qualsiasi cosa, anche correre con la torcia olimpica dall’altra parte del mondo”
Ecco, in breve, il preludio di un sogno, che da lì a pochi mesi, avrebbe risposto nell’unico modo nel quale un sogno è chiamato a rispondere: diventando reale.
Perché William, l’ha poi fatto. In Corea del Sud. Il 5 gennaio. Ha corso come tedoforo insieme ad altri 18 italiani, che hanno rappresentato l’Italia alle Olimpiadi invernali di Pyeongchang 2018. Ha risposto a una newsletter, di quelle che spesso si accantonano, ma non a caso, quando si parla di sogni, chissà perché, ci soffermiamo un attimo. Non cestiniamo subito. Diamo, volenti o nolenti, una possibilità. Per fortuna.
Quando si parla di sogni, si parla di cose serie. Le più serie, forse.
Da lì, da quella mail, è partita la macchina del possibile per William. È stato selezionato, richiamato, gli è stato chiesto: parlaci di te, raccontaci chi sei.
E lui ha raccontato del diabete, un tema che gli sta a cuore, che conosce da quando era piccolo, da quando, a 12 anni, è apparso nella sua vita, da un giorno all’altro, senza chiedere permesso, senza avvisare, senza rispettare nemmeno i più basilari e necessari tempi di conoscenza.
Da un giorno all’altro cambia tutto. E sei solo un bambino.
Da un giorno all’altro cambia tutto. E sei appena sceso da un aereo, e sei in Corea del Sud, e tra poche ore correrai con la torcia olimpica e ti vedrà, voglio dire, tutto il mondo.
Ci pensi, mentre sei nel letto dell’albergo e non puoi dormire. Non puoi aspettare. La tensione è alta, l’adrenalina non si dà pace e non ne dà nemmeno a te.
“Dalle 3 di mattina mi sono accorto che nelle altre camere dell’albergo anche gli altri tedofori non dormivano e dalle nostre rispettive stanze abbiamo iniziato a inviarci messaggi di supporto”.
È un’immagine fortissima. La veglia che precede l’avventura.
Come ci si può abbandonare al sonno, quando quello che sta per accadere è di tale portata?
Dormirò un altro giorno, ci si dice.
Dormirò poi.
“E com’è stato?”, gli chiedo. “Com’è stato quel giorno?”
“Un’emozione indescrivibile”, mi risponde, “di quelle che ti cambiano la vita… La gente che ti incita, ti chiama per nome, le telecamere, le macchine fotografiche, il contesto, e poi la torcia. Quando ti viene passata, quando stai correndo con la torcia in mano… È stata una delle esperienze più forti della mia vita”.
Il fuoco che viene passato di mano in mano. Il fuoco che decreta l’inizio. Il fuoco che scalda e unisce.
Il fuoco che è simbolo, sempre e comunque.
E poi quando è stato il momento di parlare, William ha scelto di farlo in inglese. Con la voce strozzata, con il turbamento implacabile che accompagna i momenti grandi, immensi. Ha scelto di poter essere capito da tutti: “This torch is for diabetic people and diabetic children in the world. Don’t stop to follow your dreams”.
Ha scelto di rivolgersi ai bambini “perché il futuro sono loro”.
Perché il futuro non è meno futuro se si ha il diabete.
“Perché il diabete non va nascosto. Il mio consiglio è parlarne. Parlarne sempre… Non avere paura di mostrare sensore o microinfusore. Al mare, in palestra, ovunque” mi dice.
È questo che ripete ai giovani che si rivolgono all’associazione Diabete Romagna Onlus, che lo vede attivo come volontario, da molti anni, nella creazione, ad esempio, di eventi sportivi solidali come la “Diabetes Marathon” che si svolgerà il 15 aprile a Forlì.
È sempre meglio iniziare a correre, perché – questa storia ne è la prova – non si può sapere dove saremo in grado si arrivare.
A cura di Patrizia Dall’Argine