Mila: due mesi per percorrere l’Italia in bicicletta, da Trieste e Lampedusa.

Quando il diabete può poco contro una volontà che può molto

Tolgo gli auricolari, spengo il computer, sistemo gli appunti e mi abbandono sulla sedia facendo un lungo sospiro con le braccia incrociate.
Ho appena finito di parlare con una donna straordinaria. La tecnologia mi ha permesso di farlo, creando un filo diretto Italia-Perù. E, come spesso accade quando parli con persone straordinarie, la distanza si fa davvero una questione marginale, quasi inesistente. Ci si dimentica dove si è, ci si focalizza sul suono della voce che arriva alle orecchie e che forma una catena lessicale carica di concetti, contenuti, verità, bellezze, punti di vista. Cose da imparare. Come quelle che io sento di dover imparare da lei, Mila.

Cos’ha fatto questa bella signora di 58 anni? È partita. Con una bicicletta. Per attraversare l’Italia intera, dal Friuli fino a Lampedusa (imperdibile il suo racconto di viaggio: https://biciterapia.it/). Due mesi di pedalate. Due mesi di gambe e ruote e raggi e freni e polpacci e respiro e vento e sole e posti e persone e cervello. E cuore.

Ma credo – e spesso accade di fronte a imprese di questo tipo – che si farebbe un torto a confondere l’impresa con la persona. L’impresa è la conseguenza della persona, semmai.

Perché sei partita Mila?

“Per una serie di cose”, mi risponde. “Un po’ perché avevo un amico speciale – il giornalista Franco Bomprezzi –  he mi diceva sempre che le cose si possono e si devono fare. E quest’uomo significava pienamente le parole che pronunciava. Un po’, per un incontro illuminante con un uomo che stava percorrendo i 7000 km che dividono Roma dalla Palestina e che ho ospitato a casa mia, quando ha fatto tappa a Trieste. Gli ho chiesto cosa pensasse tutto il giorno mentre pedalava. E lui mi ha fissato dritto negli occhi e mi ha detto: io mi perdono. E ho pensato che fosse tempo anche per me di perdonarmi. Soprattutto per quello che non ho fatto… E infine mi sono detta: se non ora, quando?“.

Se non ora quando? Ecco la domanda che riporta al presente, al tempo dell’oggi, l’unico su cui abbiamo il diritto forse di dire la nostra. Abbandonando l’irresistibile abitudine di pianificare, di agire affinché il futuro sia il meno incerto possibile e per di più – bella illusione – sotto controllo.
“Ho destato stupore e scompiglio in famiglia. Ognuno (i tre figli e il marito) ha reagito a suo modo: negandolo, non credendoci, appoggiandomi, dicendomi che ero completamente pazza”.
Una sana bella pazzia, mi viene da pensare. Che se si potesse essere contagiati da questa pazzia, forse saremmo tutti sani.

E proprio di salute parliamo. Del suo diabete, con un esordio avvenuto 7 anni fa, contraddistinto, come spesso accade, dalla non-accettazione.
“Ho cercato di curarmi senza farmaci… ma poi li ho dovuti prendere. Eppure adesso sono diminuiti. Ancora sento i benefici di questi due mesi in bicicletta. E ho capito che se io mi muovo, il diabete si muove meno. La glicemia è più stabile se fai sport”

Mi racconta di come il viaggio sia stato un tramite per incontrare la malattia. “Senza meta è difficile andare avanti e la meta è la guarigione”. E la consapevolezza del diabete si è estesa alla consapevolezza di una vita sedentaria che riguarda l’Occidente tutto, dove molto è creato al fine di ridurre al minimo il dispendio energetico. Tutto ciò che è comodo attrae come le sirene d’Ulisse, e bisogna davvero tapparsi le orecchie per non seguire quel canto lusinghiero e ascoltarne un altro, più profondo – che certamente non arriva da fuori, ma da dentro – più sincero, più inaspettato, più ardito, più pauroso, più impossibile, più… possibile.

Questo viaggio lo definisce lieve, una carezza a sé stessa e all’Italia intera, mentre arriva a Porto Empedocle con lo sguardo rivolto verso Lampedusa, un’isola piccola, l’ultima zampata di un continente, un posto a sé, un luogo di salvezza benedetta, una porta sul mare. “Che va aperta… le porte per definizione vanno aperte, non chiuse. Altrimenti sarebbero muri”, sottolinea.

Ti sei perdonata alla fine? Le chiedo.

“Sì”, mi risponde. “Perché ho capito che nella mia vita ho fatto quello che potevo. Il meglio che potevo in quel momento“.

Anche pedalare deve essere così, penso. Il meglio che si può. Con giorni che non funzionano, col corpo che non risponde, con la forza che si dimentica di essere forza e con la strada che non si fa trovare.

“E per fortuna mi sono persa” mi dice Mila. “Per fortuna ho dovuto guardare l’ignoto dentro di me. Dovevo capirmi. Dovevo partire da sola. Ora quando sono sopraffatta dalle complicazioni, ogni tanto, mi rimetto a pedalare”.

Ma le donne come Mila, penso io sorridendo da lontano dopo un’ora al telefono, non si rimettono in movimento. Le donne come Mila non si sono mai fermate.

Patrizia Dall’Argine