Come viene rappresentato il diabete al cinema? In questa rubrica abbiamo parlato spesso di come le storie possono essere uno strumento di cura e di educazione per le persone che convivono con questa malattia. Ma al di fuori dell’ambiente terapeutico, viviamo costantemente immersi nelle storie come, per esempio, quelle raccontate dalla cinematografia. Storie che hanno un impatto sulla percezione sociale del diabete.
E torniamo quindi alla domanda iniziale: come viene rappresentato il diabete al cinema?
Dopo una prima, rapida ricerca su Wikipedia, ciò che salta immediatamente all’occhio è come il diabete sia sotto-rappresentato: i film di fiction (escludiamo le biografie e i documentari) che parlano esplicitamente di diabete o che presentano personaggi che ne soffrono sono tutto sommato pochi. Perché?
Sembra che il cinema ritenga il diabete una patologia poco interessante. Forse perché, data la sua alta prevalenza, non è una patologia misteriosa e sconosciuta; forse perché non ha nemmeno l’appeal della patologia contagiosa o che invade il corpo come un elemento estraneo, caratteristiche che spesso sono utilizzate nella cinematografia horror (l’epidemia zombie come metafora del il contagio) o di fantascienza (l’alieno che distrugge il corpo impossessandone, come metafora del cancro).
Sicuramente l’aspetto che la rende meno “rappresentabile” è il fatto che si tratta generalmente di una patologia invisibile: salvo casi eccezionali, la vita di chi soffre di diabete è caratterizzata da una routine piuttosto impegnativa, fatta di misurazioni e controlli e stile di vita sano. Quando la glicemia è sotto controllo, la persona con diabete può vivere una vita normale.
A conferma di questa ipotesi, abbiamo il fatto che quando il diabete viene rappresentata al cinema, ciò che viene mostrato più spesso sono i momenti più tragici (crisi ipoglicemie gravi) o le conseguenze più nefaste (amputazioni, disfunzioni renali, coma).
Da Fiori d’acciaio a Panic Room: la crisi ipoglicemica al cinema
Prendiamo ad esempio due film di grande successo (anche se un po’ datati): Panic Room e Fiori d’acciaio
Un interessante articolo del 2010, The Cinema of Control: On Diabetic Excess and Illness in Film, spiega come le storie di malattia sono rappresentate al cinema secondo tre principali modelli:
- Storie di successo (generalmente biografie, in cui il protagonista eroicamente riesce a superare i limiti imposti dalla malattia);
- L’avvertimento morale, in cui la malattia è metafora della trasgressione etica o delle regole della famiglia;
- La svolta narrativa, in cui la malattia è un espediente narrativo per introdurre un elemento di crisi che muove l’azione.
Panic Room rientra in questa terza categoria (che è senza dubbio anche la più diffusa tra i film che parlano di diabete): una giovanissima Kirsten Dust interpreta la figlia della protagonista, Jodie Foster. Entrambe si trovano nascoste e intrappolate in una stanza segreta (la panic room, appunto), durante una rapina in casa. La crisi ipoglicemica della ragazza rappresenta un elemento di tensione ulteriore che permetterà alla protagonista di mostrarsi eroica e a uno degli antagonisti di redimersi (almeno parzialmente).
Nel film Fiori d’acciaio è Julia Roberts la giovane donna affetta da diabete: in questo caso il diabete ha la funzione di aggiungere drammaticità alla trama e delineare il legame di “sorellanza” tra i personaggi principali. Paradigmatica è la scena della crisi ipoglicemica nel salone di bellezza (link: https://www.youtube.com/watch?v=ybbS5_qlkaQ ), in cui la Roberts, insieme a Sally Field che interpreta la madre, danno vita a un’interpretazione ad alto impatto emotivo. Il supporto tra le amiche si rende ancora più necessario, quando Shelby, il personaggio della Roberts, dopo una gravidanza fortemente sconsigliata, muore per insufficienza renale.
Questa storia può aver influenzato le donne con il diabete nella scelta di intraprendere una gravidanza? Entriamo qui nello spinoso tema dell’impatto sociale del cinema.
Lo sceneggiatore del film Robert Harling si è ispirato alla storia personale della sua famiglia: madre con diabete, insieme alla sorella, quest’ultima deceduta a soli 32 anni per complicanze renali. La verosimiglianza della storia narrata non è in discussione quindi, eppure molte persone con diabete si sentono irritate (e lo esprimono su blog e forum) da questa rappresentazione “terroristica” della malattia.
Harling controbatte: si tratta della storia di una persona, non della descrizione scientifica e statisticamente fondata di come si manifesta ed evolve il diabete nella maggior parte delle persone.
Errori e stereotipi: le responsabilità del cinema
Lo stesso dibattito emerge in merito all’enorme quantità di errori e grossolane imprecisioni con cui viene descritto il diabete nei film. (link: https://www.youtube.com/watch?v=K_eVuTu94Xg)
Prima di indignarsi, però, forse dovremmo ricordarci la quantità (e la comicità involontaria) di errori storici presenti in un film di grandissimo successo come Il Gladiatore. Si chiama sospensione dell’incredulità (suspension of disbelief).
Generalmente il cinema non è concepito come uno strumento di divulgazione, di educazione o di sensibilizzazione, non ha l’obiettivo di fornire informazioni scientificamente corrette, anche se per esempio un film come Panic room ha usufruito della consulenza tecnica di un esperto, ma ciò non ha impedito semplificazioni necessarie secondo il regista. L’obiettivo del cinema è quello di muovere emozioni, raccontando storie. Ed è più facile emozionare usando la leva della tragedia o semplificando gli aspetti più tecnici della malattia.
Quello che forse fa indignare meno, ma che potrebbe costituire un interessante spunto di riflessione è il significato della malattia che viene veicolato attraverso questi film. Le narrazioni del cinema costruiscono un immaginario, un catalogo di significati più che una manuale di educazione sanitaria. Sono allo stesso tempo specchio di una percezione comune (il cinema rappresenta quello che il pubblico si aspetta) e contribuiscono a costruire una cultura (diffonde su ampia scala un punto di vista soggettivo).
Un’immagine paternalistica della persona con diabete
Torniamo quindi alla domanda iniziale: come viene rappresentato il diabete al cinema? Con paternalismo, è la risposta.
Il diabete è associato all’idea di controllo (e della perdita di controllo): la persona con diabete è vulnerabile, bisognosa di aiuto, non sa/può gestire la sua malattia da sola e deve essere supportato da una figura esterna (generalmente la madre, forse dovremmo parlare di “maternalismo”). Quasi inesistenti nella filmografia gli eroi con diabete (due eccezioni, sono film poco noti come Warlock e No Good Deed), mentre si trovano un sacco di “vittime” che danno la possibilità al protagonista di mostrarsi forte ed eroico.
In alcuni casi la debolezza del personaggio con diabete è intesa come debolezza di volontà, incapacità di mantenere il controllo sui propri “istinti” e di attenersi alle regole, intese in senso paternalistico e morale: per esempio nel film Chocolat il personaggio di Armande preferisce essere “punita” con la morte, piuttosto che sottostare alle regole alimentari imposte dalla figlia (d’altra parte è proprio questo della ribellione al puritanesimo, il filo conduttore del film).
A cosa possono servire i film sul diabete
Come abbiamo visto, i film non parlano della malattia in senso biomedico (e quando lo fanno, spesso lo fanno male). I film raccontano storie che muovono emozioni: per questo possono essere occasioni per riflettere su queste emozioni. Che cosa provo guardando la scena dell’ipoglicemia di Fiori d’acciaio? Mi commuove? Evoca ricordi personali? Mi irrita?
E quando Armande, di Chocolat, indulge nel piacere colpevole dei dolci preparati dall’abile pasticcera Vianne, che cosa risveglia in noi?
Il bello di una storia è che interagisce con il nostro vissuto, indifferentemente dal fatto che siamo malati, sani, caregiver o totalmente estranei e disinformati sul diabete: ci identifichiamo o rifiutiamo i personaggi rappresentati, oppure proiettiamo le nostre paure, la nostra rabbia, la nostra gioia nelle storie – “umane, troppo umane”, anche se immaginarie – raccontate.
Gli errori e gli stereotipi rappresentati nei film possono essere temi per aprire una discussione costruttiva tra chi vive la malattia in prima persona e chi invece la conosce solo dall’esterno. Senza dimenticare come le trame delle storie, spesso anche involontariamente, aprano temi caldi per chi soffre di diabete come quello della relazione con il nucleo familiare.
Insomma, anche le storie del cinema, se lette e interpretate criticamente, possono avere una funzione educativa e di sensibilizzazione. “Purché se ne parli”, potremmo dire da intendersi non semplicisticamente come invito a rappresentare maggiormente il diabete nei film, ma più che altro come stimolo per aprire un dialogo attivo e critico.
A cura di Francesca Memini
Bibliografia
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Kevin L. Ferguson, The Cinema of Control: On Diabetic Excess and Illness in Film
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J Med Humanit (2010) 31:183–204 DOI 10.1007/s10912-010-9110-8
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https://www.diabeteshealth.com/diabetes-in-the-movies/
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Shelby https://www.youtube.com/watch?v=ybbS5_qlkaQ
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Errori nei film (da Insulin Naton) https://www.youtube.com/watch?v=K_eVuTu94Xg